di Gianluigi Mattietti
A cinque anni dalla sua prima (ad Amsterdam), l’opera Only the Sound Remains di Kaija Saariaho (già dispondibile in dvd: Erato 9029575395) è approdata in Italia, alla Biennale Musica, come un doveroso omaggio alla compositrice finlandese celebrata quest’anno con il Leone d’Oro alla carriera.
Le due parti dell’opera sono tratte da due tradizionali Nō giapponesi rielaborati da Ezra Pound, accomunati dal tema della scomparsa: in Tsunemasa (Sempre forte) il fantasma di un giovane liutista favorito dell’Imperatore e morto in battaglia compare e seduce il custode del tempio prima di svanire inghiottito dalla tenebra; In Hagoromo (Il manto di piume) un pescatore, che ha trovato una veste di piume appartenente a un angelo, accetta di restituirgliela solo in cambio di una danza celeste. La musica della Saariaho non aggiungeva alcuna increspatura drammatica alla dimensione magica e sospesa di queste storie: tutto appariva modellato su precise geometrie, con due linee vocali neutre e contrapposte, una grave-terrena (il baritono Bryan Murray) e una acuta-eterea (il controtenore Michał Sławecki), con un ritmo lento e invariato, con campi armonici statici e prolungati (solo nel secondo quadro il ritmo accelerava e acquisiva le movenze di una danza evanescente), con raffinate texture timbriche intrecciate da sette strumenti (compreso un kantele, dalle risonanze magiche e orientaleggianti) diretti da Clément Mao-Takacs, con le delicate punteggiature di un quartetto vocale nella fossa orchestrale (l’eccellente Theatre of Voices), con un’elaborazione elettronica che dava spazialità al suono, riprendendo le soluzioni dell’opera Emilie (ma con un’amplificazione eccessiva per gli spazi del Malibran). Tutto sospeso, elegante, ma un po’ patinato e poco coinvolgente, come anche lo spettacolo ideato da Aleksi Barrière, figlio della compositrice, improntato a un’essenzialità estrema, con i suoi pannelli di carta di riso, i giochi d’ombre, i gesti ieratici, le coreografie di Kaiji Moriyama, le immagini di fogliame fluttuante.
La Biennale Musica quest’anno era dedicata alla voce, e in particolare alle composizioni per ensemble vocali, e il Theater of voices è tornato protagonista in un concerto diretto da Paul Hillier, con la collaborazione del PMCE (Parco della Musica Contemporanea Ensemble). L’ensemble statunitense si è ammirato nell’esecuzione di due suoi cavalli di battaglia: un pezzo storico come lo Stabat Mater di Arvo Pärt (cd Harmonia Mundi HMU 807553), dove purtroppo mancava la purezza assoluta della parte strumentale, per qualche eccesso di vibrato; e The Little Match Girl Passion (cd Harmonia Mundi HMU 807496) di David Lang, che fondeva la nota fiaba di Andersen con la Matthäus-Passion di Bach per elevare la piccola fiammiferaia a figura tragica e sacrificale. Nelle quindici stazioni di questa passione, emergeva lo stile molto personale del compositore americano, fatto di frasi interrotte e sospese, moduli reiterati e riverberanti, linee arcaizzanti, punteggiature di percussioni metalliche, in un’atmosfera raggelata, ieratica, ma di grande seduzione.
In un festival dedicato agli ensemble vocali, non potevano mancare i Neue Vocalsolisten di Stoccarda (Leone d’argento) che hanno sfoggiato tutta la loro abilità, duttilità e affiatamento in un concerto con due prime assolute, di George Lewis e Sergej Newski, scritte su commissione della Biennale. Del compositore americano hanno eseguito Amo per cinque voci ed elettronica, con testo multilingue, dal latino al twi, la lingua natale di Anton Wilhelm Amo (1703-1759), il filosofo cui è ispirato il pezzo: deportato nel 1707, quando era ancora bambino, dal Ghana in Germania, fu donato come schiavo al duca Augusto Guglielmo di Brunswick-Lüneburg che gli garantì un’istruzione, e fu il primo africano a frequentare un’università in Europa. Su un testo tratto dalla sua Disputa filosofica contenente un’idea distinta di quelle cose che attengono alla nostra mente o alla nostra parte viva e organica, Lewis ha creato una scrittura polifonica ricca, movimentata, abilmente rimpolpata dall’elettronica. Più scarno, ma anche più intenso, profondamente poetico, e più moderno, è parso il lavoro per cinque voci elettronica e video di Newski, intitolato Die Einfachen. Il compositore russo si riallacciava al suo precedente Pazifik Exil, dove la voce diventava vero e proprio teatro, con storie di esiliati della Storia, per gettare luce in territori dimenticati e rimossi dalla memoria, ma ancora oggi capaci di commuovere: in quel caso si trattava di una scena da concerto, per sei voci e live electronics, basata sull’omonimo romanzo di Michael Lentz, che raccontava le storie di artisti e intellettuali tedeschi (come Thomas Mann, Franz Werfel, Arnold Schönberg, Lion Feuchtwanger, Bertolt Brecht) esiliati in California nel periodo nazista, in un virtuosistico gioco di gesti stranianti, monologhi e dialoghi immaginari, collegati da parti elettroniche che evocavano vite sospese tra speranza e paura, tra esperienze di impotenza e deliri di onnipotenza. In Die Einfachen (i semplici), il libretto dello stesso compositore si basava su lettere dalla Russia del 1920, scoperte e pubblicate da Ira Roldugina dell’Università di Oxford, che raccontavano i pregiudizi e le persecuzioni contro gli omosessuali in quel periodo, attraverso le voci di operai, studenti e contadini: quelle testimonianze sono state intessute dal compositore in un’originale drammaturgia musicale, dove si mescolavano interviste, monologhi, immagini animate (figure in bianco e nero, sagome stilizzate, volti su fondo nero illuminati di lato, con effetti caravaggeschi: video, scene e regia erano di Ilya Shagalov), live electronics (di Alex Nadjarov), voci parlate (di attori in video e in scena) e voci cantate sulla scena, in un’originale polifonia insieme sonora e visiva, una graduale efflorescenza di musica e di immagini, basata su combinazioni di elementi sempre diverse.
Nel panorama degli ensemble vocali contemporanei (quest’anno la Biennale aveva come titolo Choruses) c’era anche l’SWR Vokalensemble, sempre di Stoccarda, che sotto la direzione di Yuval Weinberg, e insieme agli strumentisti del PMCE, ha eseguito The Rothko Chapel di Morton Feldman, e due novità di Francesco Filidei e di Samir Odeh-Tamimi. Tutto in una volta di Filidei, per doppio coro, prendeva il titolo da una poesia di Nanni Balestrini (dalla raccolta Ma noi facciamone un’altra), fatta di versi brevissimi, di tre o quattro sillabe, collegati da una struttura di senso paratattica, molto sperimentale, che il compositore ha tradotto in un intreccio di linee dipanantisi come un caleidoscopio, passando da una serie di sospiri a una grande bolla armonica, avvolgente, che si muoveva verso l’alto, per poi richiudersi su se stessa. Timna, del compositore palestinese, si ispirava invece a un’antica civiltà preislamica, l’antico regno di Qatabān, nell’attuale Yemen, che aveva come capitale appunto Timna, città ricca di templi e di cultura che fu rasa al suolo nel 150 d.C. Su un testo in arabo arcaico, derivato dall’antica lingua dei Sumeri, Odeh-Tamimi ha creato una musica dal carattere primitivistico e rituale con cinque strumenti (inclusi strumenti etnici come il shekere) e un coro suddiviso in quattro gruppi, che pure suonava delle percussioni: l’ordito corale, dalla struttura elementare, fatto di semplici progressioni, blocchi omoritmici, accumuli di materiale, faceva trapelare echi di tradizioni arabe, svelando una grande forza evocativa, che sembrava far rivivere riti di quegli antichi luoghi sacri.