di Gianluigi Mattietti
Nel tempio pucciniano di Torre del lago, edizione numero sessantasette, è stata ripresa la Bohème di Ettore Scola, il suo ultimo lavoro operistico, allestito su questo stesso palcoscenico nel 2014. Uno spettacolo all’insegna della tradizione (era affidato alle cure di Marco Scola di Mambro, nipote del regista), a partire dalle scene di Luciano Ricceri, che richiamavano i bozzetti originali di Adolf Hohenstein: c’era tutto il classico armamentario dell’oleografia bohémien, i tetti di Parigi, gli artisti, i camerieri, le prostitute, i monelli che corrazzavano intorno a Parpignol, la dogana sotto la neve, i manicotti, le cuffiette, le zimarre.
E se tutto questo non fosse già abbastanza stucchevole, dietro l’angolo del caffè Momus c’era anche Manet che dipingeva il Déjeuner sur l’herbe. Eccellente però il cast, dominato da Polina Pasztircsák, molto sicura nell’emissione, con un suono morbidissimo, e dal tenore Ivan Ayon Rivas, voce sempre a fuoco e bel fraseggio, molto ben calato in Rodolfo, nonostante l’aspetto fanciullesco. Bravi anche il Marcello di Kartal Karagedik e la Musetta di Maria Chabounia, una coppia affiatata e molto credibile sulla scena. Accurata e attenta al rapporto tra orchestra e palcoscenico la direzione di Enrico Calesso, che però staccava spesso tempi lentissimi.
Tra i numerosi eventi nel programma del festival, impaginato dal direttore artistico Giorgio Battistelli, c’era anche il Pierrot Lunaire: Non una grande novità in sé, ma un evento per il festival pucciniano, legato anche alla circostanza storica che spinse Puccini nel 1924 a recarsi a Firenze per sentire questo lavoro di Schönberg. Affilata, precisissima ritmicamente, ricca di sottolineature espressive la prova vocale di Livia Rado. Accurata e ben contrastata l’esecuzione strumentale dell’ensemble “Giorgio Bernasconi” dell’Accademia Teatro alla Scala, diretto da Marco Angius, benché la scrittura contrappuntistica di questa partitura non si prestasse bene ad un’esecuzione en plein air. La stessa “location”, sul prato antistante il teatro, dove occhieggiavano le grandi “teste” di Igor Mitoraj, appariva invece una cornice ideale per la vera novità musicale del festival: quattro mini-drammi, commissionati ad altrettanti compositori italiani, composti su versi di Franco Marcoaldi, eseguiti in due serate successive (un dittico ogni serata), affidati alla voce calda e suadente di Anna Bonaiuto, e ancora alla esperta bacchetta di Angius. Fil rouge di questa mini-tetralogia era il tema del bacio, che attraversa tutta la storia della musica e in particolare dell’opera, nelle sue varie e innumerevoli declinazioni: come bacio passionale, che diventa tema musicale in Otello, come bacio metaforico, con il quale Tosca pugnala Scarpia, come bacio materno, tenero e struggente, ma legato a un destino di morte, che invoca Amelia nel Ballo in Maschera, e che evoca Suor Angelica, opera nella quale il bacio compare anche come segno di devozione (il bacio in terra) o di sottomissione (il baciamano). I baci di Marcoaldi erano invece legati ai tempi della pandemia, dove un gesto così quotidiano e spontaneo, è stato vietato, è diventato un gesto pericoloso, contagioso.
Il bacio estremo di Tosca di Fabrizio de Rossi Re era dominato da una densa e virtuosistica scrittura pianistica, che circolava come un elemento di tensione costante, un «colore ansioso di fondo», culminante in due grandi cadenze solistiche. Più articolato il mini-dramma di Michele Sarti, Il bacio immaginato, nel quale il compositore fiorentino (che ha studiato a Londra con Maxwell Davis e in Danimarca con Hans Abrahamsen), si è concentrato sull’idea del «tempo assoluto del presente», ricavata da un verso di Marcoaldi, ed ha ampliato il testo con una serie di interrogativi, per ricavarne un personalissimo percorso drammatico. Ne è risultato un lavoro molto ampio e un po’ disomogeneo (era costruito come una serie di otto frammenti e un epilogo, ricavati dalla trascrizione di una serie di preludi per fisarmonica), ma ricco di illanguidimenti timbrici e con un frequente ticchettio che rimarcava lo scorrere del tempo. Una grande finezza nella scrittura timbrica emergeva anche in Con-tatto di Salvatore Frega: la poesia Il bacio negato descriveva in maniera molto vivida l’isolamento da lockdown, raccontava di «quel maledetto killer coronato» che vieta il bacio, «quintessenza misteriosa di ogni batticuore», di come siamo costretti a difenderci («serrate le labbra, coperte e mascherate») per la paura dei droplets («nella minuscola goccia di saliva, nel magico scambio di vicendevole liquore, si nasconde la più pericolosa insidia, l’agente segreto del pandemico terrore»). Il compositore cosentino (di origine arbëreshë, studioso di musica armena, allievo di Andrea Portera e di Ivan Fedele) ha raccolto le suggestioni del testo e le ha trasformate in musica, in una dimensione teatrale, dove gli strumenti si facevano personaggi, cercavano di stabilire tra loro un dialogo «in maniera discreta, piano piano, ‘con tatto’», dove gli assoli (come quelli del violoncello, all’inizio e alla fine del pezzo) apparivano come tristi momenti di solitudine, dove le farsi strumentali si intrecciavano come abbracci, in un gioco di incastri che culminava nella sezione centrale del pezzo. Un’idea analoga era anche alla base del Bacio animale di Orazio Sciortino, che vedeva proprio nella scrittura concertante una metafora del bacio: «Nel nostro immaginario, il bacio è metafora del desiderio, ma anche di nutrimento dell’altro, di un respiro comune, di un donarsi reciproco. Il termine ‘concerto’ ha nella sua etimologia l’accezione di scontro, una sorta di conflitto che è esaltazione dell’individualità e del superamento in vista di uno scopo superiore: il fare musica. Cosa c’è quindi di più erotico di un gruppo di musicisti che facendo musica si cercano, respirano assieme, condividono esperienze senza raccontarsele, ricercano quell’empatia necessaria al bene superiore che è l’interpretazione di una partitura?». Analogamente al quartetto in fa diesis minore op. 10 di Schönberg, dove interviene un soprano negli ultimi due movimenti, Sciortino ha riservato l’intervento della voce recitante alla coda strumentale, che dopo una un fitto ordito contrappuntistico, si scioglieva in una trama soffice, lontana, rarefatta, dove i frammenti strumentali suonavano come voci di natura, sembravano echeggiare gli animali elencati nel testo, con un effetto dalla forte carica evocativa.