di Cesare Galla
A cinquant’anni dalla morte, ripensare a Bruno Maderna (Venezia, 21 aprile 1920 – Darmstadt, 13 novembre 1973) non è solo una conseguenza dell’inevitabile omaggio anniversario dedicato a una figura centrale nella Nuova Musica fra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso, ma significa anche provare a interrompere l’eclissi lenta ma apparentemente irreversibile (nonostante il recente interesse di studi e testimonianze) delle sue opere nella sale da concerto e sulle scene.
E rimettere a fuoco – ove possibile – il severo giudizio critico di Mario Bortolotto, che gli dedicò nel cruciale saggio intitolato Fase seconda (pubblicato da Einaudi nel 1969, riedito da Adelphi nel 2008) un’attenzione solo obliqua, puntando come si sa – quanto agli italiani – su Nono, Berio, Castiglioni, Clementi, Evangelisti, Bussotti e Donatoni. Una ventina di anni più tardi, il musicologo avrebbe ribadito e “aggiornato” in maniera tipicamente tagliente il suo punto di vista in un articolo uscito sulla rivista Piano Time nel gennaio 1990 (e ora pubblicato nella raccolta postuma Il viandante musicale, Adelphi 2018). Dell’ultima fase compositiva di Maderna, quella seguita al 1969 e fino all’anno della morte – fase da Massimo Mila definita in positivo come una “esplosione” – in questo articolo si dice che «le ultime cose sono ancora più velleitarie e sconnesse (senza stare a ripetere che contengono ancora e sempre momenti esaltanti), la disponibilità leggendaria verso tutto svela la mancanza di centro: qualcosa come i famosi “effetti senza causa”».
In realtà, Maderna è notoriamente figura culturale che travalica il pur decisivo versante creativo-compositivo, e non esistono dubbi sull’importanza del suo ruolo come didatta, organizzatore, promotore concreto di tante iniziative anche fondamentali per lo sviluppo della Nuova Musica (e basti pensare al Centro di fonologia di Milano). Il vero e proprio “uomo squadra”, si potrebbe dire, dell’Avanguardia nata e cresciuta intorno ai fin troppo celebrati corsi estivi che si tenevano a Darmstadt, in Assia. Città non a caso divenuta una sorta di seconda patria dell’autore veneziano. Ma ritrovarlo sulle scene nella veste di autore permette di capire se il giudizio critico di Bortolotto tenga ancora, o se non sia possibile piuttosto arrivare a una visione storicamente più consapevole, che esca dalle controversie furenti della Nuova Musica negli anni in cui essa andava compiendo il suo percorso, e raggiunga una più meditata definizione.
In questo senso è da salutare con favore la proposta della Fenice, che al Teatro Malibran ha presentato, nell’ambito della sua stagione lirica e come ulteriore celebrazione cinquantenaria, l’ultima opera di Bruno Maderna, Satyricon, portato al debutto in Olanda nel mese di marzo del 1973, otto mesi prima della morte. Una partitura la cui ultima e unica rappresentazione nella città natale del musicista risaliva al 1998.
Nella prospettiva dei rilevanti risultati raggiunti dal teatro musicale contemporaneo nell’ultimo mezzo secolo, il lavoro di Maderna (nel quale, com’è stato osservato, la consapevolezza della fine imminente e la necessità di stringere i tempi della creazione devono anche avere avuto un peso) appare oggi irrimediabilmente datato, eppure capace di esprimere, in qualche modo, la “ribellione” del musicista veneziano rispetto alla sostanziale indifferenza a questo genere da parte dall’ala più radicale dell’Avanguardia. Una sorta di fuga dall’ineluttabilità dell’apparente declino, condotta con un’invenzione polistilistica irruente, in una sorta di koinè musicale che del resto corrisponde a quella linguistica del romanzo di Petronio Arbitro a cui il testo multilingue fa riferimento. Ma non si può non osservare che tale molteplicità stilistica finisce per adagiarsi sul citazionismo quasi pop di brani famosi della musica di ogni tempo in una maniera che appare allo stesso tempo provocatoria e rinunciataria. Né il contraltare “d’avanguardia” dell’ampio utilizzo del nastro magnetico e dell’impostazione tipicamente aleatoria, con la possibilità di mutare liberamente l’ordine delle scene (ciascuna considerata in sé conclusa) riesce a far sì che l’insieme delinei una drammaturgia qualsivoglia.
La rappresentazione di Trimalcione e dei suoi ospiti nella famosa cena, che fa da vetrina a sordide bassezze e disperate mancanze di senso all’interno di un contesto sociale grettamente arrivista, decadente e vòlto solo al piacere, ha naturalmente un risvolto anche politico, sottolineato dallo stesso autore e che si può considerare valido nei primi anni Settanta come oggi. Ma trovare una qualche “attualità” in questo Satyricon appare impossibile. Quello che colpisce, semmai, è la sua tragicità intrinseca, il suo lugubre senso di morte. Sull’orlo di quello che crede essere l’abisso in cui il teatro musicale è destinato a sprofondare, Bruno Maderna contempla la tradizione musicale dell’Occidente e la sua evoluzione radicale, ne intuisce l’astrattezza e l’imminente declino e prova a indicare una via d’uscita alla sua arte. Che ci riesca è revocabile in dubbio, ma certo la testimonianza è potente. E per certi aspetti quasi commovente. Paradossalmente, l’effetto senza causa di cui parlava Bortolotto, che appare abbastanza evidente, finisce per costituire una sorta di intrigante valore soggettivo dell’opera, quasi storicamente esistenziale.
Lo spettacolo firmato al Malibran da Francesco Bortolozzo (scene Andrea Fiduccia, costumi Marta Dal Fabbro, luci Fabio Barettin, regia del suono Giovanni Sparano) non ha peraltro aiutato più di tanto a dipanare la complicata trama di queste motivazioni creative. Fra qualche citazione in chiave visionaria di Hieronymus Bosch (alcuni dei cui dipinti appaiono verso il finale) e qualche dettaglio post-moderno (schermate di computer con allusioni social), lo spettacolo si è dipanato secondo una logica rappresentativa neutra, che puntava sulle controscene e sull’apporto di un gruppo di cinque abili danzatori per creare il contesto drammatico del quale la partitura sostanzialmente si disinteressa, visto che tutto in quest’opera è narrazione in prima persona o perorazione pseudo (o anti) filosofica. Il clima di consapevole fine di un’epoca che Maderna vedeva nel romanzo di Petronio, e che attraversa anche la partitura, è stato raccontato senza scarti, senza soverchie invenzioni, senza accensioni particolari – a parte qualche felliniana sfilata in passerella – anche quando le citazioni musicali di Maderna avrebbero consentito ben altro immaginario.
Musicalmente l’esecuzione guidata da Alessandro Cappelletto si è fatta apprezzare per concentrazione e nettezza strumentale, in buon rapporto con l’avvolgente apparato rumoristico e naturalistico (suoni, voci, rumori, canto di uccelli…) fornito dai nastri magnetici, ampiamente (forse anche troppo) utilizzati. Compagnia di canto assai ben assortita: tutti erano discreti attori, allusivi quanto serve nei gesti e negli sguardi, vocalmente in grado di percorrere con disinvoltura una partitura che al canto riserva un catalogo se non completo certo assai ampio di stili, dal parlato al declamato, all’intonato secondo stili e moduli compositi, dal Barocco al Novecento storico, non senza incursioni nel cabaret (inteso alla tedesca, alla Kurt Weill) e nel musical. Gli applausi di un pubblico discretamente numeroso hanno accomunato nel successo Marcello Nardis, linea di canto ironica e desolata come si conviene alla parte di Trimalcione, Manuela Custer, Fortunata di allusiva ironia, Christopher Lemmings (Habinnas), William Corrò (Niceros), Francesco Milanese (Eumolpo) e Francesca Gerbasi (Criside).