di Luca Chierici
Se ne ha sempre di più la riprova: sono sufficienti poche battute nell’ascolto di un solista per venire a capo delle qualità strumentali e narrative dello stesso, del suo dominio stilistico, della perfetta corrispondenza tra le idee e la loro realizzazione tecnica.
Sono pochi, pochissimi gli artisti (a questo tipo di esecutori è permesso di forgiarsi di tale epiteto) oggi in circolazione che soddisfano questi requisiti e recentemente vi è stata la possibilità di ascoltare un bellissimo recital di Lukas Geniušas per le Serate Musicali, un appuntamento che in un certo senso ha fatto da contraltare all’altrettanto straordinario recital di Renèe Fleming e Evgenij Kissin alla Scala qualche giorno fa.
Se Kissin, di una generazione precedente a quella di Geniušas, ha confermato negli anni un approccio che tende a glorificare la scuola russa di tradizione nel più alto senso della parola, il giovane Lukas sta sempre di più dimostrando come nuovi parametri di lettura vadano a minare le sicurezze interpretative di quella scuola gloriosa. E in ambedue i casi sono stati appunto sufficienti pochi secondi di ascolto per convincere lo spettatore di una presenza artistica di livello assoluto.
Nella prima parte del suo recital, Geniušas ha letto i quattro celebri Improvvisi dell’op. 90 di Schubert in una maniera spesso anticonvenzionale, con intelligente spirito critico che metteva in discussione la sacralità di luoghi musicali rimasti celebri per la loro immensa singolarità. Così del primo Improvviso in do minore si coglieva la sfida nel porgere le prime battute come se si trattasse di una leggera caricatura, con quel “sol” in ottava che sembra davvero aprire il sipario su un racconto che ci porterà molto lontano. Molto belli i rimanenti tre numeri, con una palpabile preoccupazione nell’esecuzione di quello famosissimo in sol bemolle, nel quale non sai davvero se il minimo accento fuori posto possa far crollare un equilibrio di perfezione neppure commentabile. Al termine, Geniušas ha voluto concludere la prima parte con il fantastico Minuetto D 600, che del Minuetto classico non ha proprio nulla a che fare e che piuttosto fa pensare a un’altra provocazione, questa volta da parte dell’Autore, volta a sottolineare un carattere quasi spettrale del ritmo di danza. L’unico appunto che mi sento di fare, in questo caso, è che questo Minuetto è stato davvero riscoperto qualche anno fa da Arcadi Volodos, al quale va dato atto della felicità del recupero che è in un certo senso appannaggio del tutto personale.
Ma la sorpresa della serata è stata l’esecuzione di una prima versione della Sonata op. 28 di Rachmaninoff, il cui spartito è stato recentemente ritrovato dallo stesso Geniušas. Avendo egli in repertorio la seconda versione della sonata stessa, il pianista ha preferito aiutarsi con l’immagine dello spartito convogliata dall’Ipad di prammatica per evitare pericolosi errori che avrebbero facilmente portato alla sovrapposizione di due versioni differenti. Differenti fino a un certo punto, perché della Sonata si coglieva comunque l’impatto generale che ne fa un oggetto di impressionante portata. E’un testo tipico del primo Rachmaninoff, che successivamente farà ammenda di una certa lunghezza tramite un approccio – la seconda sonata – debitore della concisione da lui ammirata leggendo la Sonata in si bemolle minore di Chopin (“diciannove minuti, e dice tutto”) . Qui le idee si contorcono, la scrittura pianistica è proibitiva, immani le risorse richieste all’esecutore, che si trova a dovere gestire un impianto di natura davvero sinfonica. Anche in questo caso bisogna dare atto a un certo numero di eccellenti pianisti l’aver riportato alla pratica esecutiva questa composizione pochissimo conosciuta (Ciccolini l’aveva eseguita addirittura nel 1958, e più recentemente ad essa si sono dedicati Trifonov, Kantorow, Luganski, Malofeev, Romanowski, Berezowski, Pletnev e altri). Il valore aggiunto dell’esecuzione di Geniušas, a parte la scoperta di questa versione primitiva, è dato anche in questo caso dalla rilettura in chiave critica di un linguaggio che sembra votato solamente all’aspetto esteriore ma che in realtà è colmo di novità, quasi uno studio sulle possibilità sinfoniche dello strumento.
A voler confermare questa sua attitudine nel ritornare su luoghi musicali celebri ripensandoli in ottica insolita, Geniušas ha offerto come bis, oltre a un immancabile Preludio di Desiatnikov, l’undicesimo Studio dell’op.10 di Chopin, trasformando l’inesorabile precisione di una famosa lettura polliniana in un più rassicurante gioco di abbellimenti che sottolineava la matrice ottocentesca e “de salon” di questo pezzo.