di Attilio Piovano
Tre i bis, a fine serata, due nel segno di Skrjabin a incastonare una saporosa, quanto a dire il vero bizzarra rivisitazione di Scarlatti. Così la sedicenne Alexandra Dovgan ha deciso di coronare il suo applaudito recital solistico per Lingotto Musica, a Torino, in Auditorium ‘Agnelli’ la sera di martedì 18 aprile 2023.
Del visionario autore del Poema dell’estasi si sono ascoltati lo Studio n. 12 dall’op. 8 e il Primo Studio dall’op. 2, due pagine che la Dovgan – ormai nonostante la giovanissima età una indiscussa (anche se forse discutibile) star internazionale (tra gli altri riconoscimenti premio “Renzo Giubergia” Torino 2021) – ha affrontato verrebbe da dire con piglio ‘alla Rachmaninov’, tant’è che in molti hanno stentato a riconoscervi il tratto peculiare di Skrjabin, propendendo per l’appunto erroneamente per Rach. E questo la dice lunga sull’approccio stilisticamente ancora acerbo da parte della pianista di origine russa nei confronti delle partiture, ancorché gli autori suoi conterranei siano di fatto maggiormente nelle sue corde, al contrario di altri compositori. Sicché con i tre bis ha senz’altro spopolato, riscuotendo calorosi consensi, ma non ovazioni unanimi. Soprattutto è particolarmente piaciuto (forse la cosa migliore di tutto il concerto) il tocco adamantino e lo scorrevole, spigliato virtuosismo col quale ha affrontato lo Studio n. 6 ‘Hommage à Scarlatti’ del contemporaneo Marc-André Hamelin.
Quel medesimo tocco posto in atto nel cimentarsi, in apertura di serata, con la mozartiana Sonata K 310, della quale la Dovgan – a modesto avviso di chi scrive, ma anche a detta di non pochi musicisti presenti in sala – ha (quasi) completamente disatteso l’esprit. E si tratta, si sa, di una tra le più intense tra le Sonate del salisburghese, pagina giovanile, certo, ma divorata da un’angoscia esistenziale incredibile (sono note le vicende della sua genesi legate alla morte quasi improvvisa della madre, a Parigi, quando Mozart contava appena ventidue anni): aver affrontato a una velocità assurda il finale, percorso da un fuoco inestinguibile e da uno scoramento che lasciano tuttora attoniti, significa aver compreso poco o nulla del capolavoro del quale la Dovgan ha ‘massacrato’ altresì l’Andante centrale, ‘tirando via’ sul cantabile che ne è il nerbo. Ancora nel Finale: vi è un unico momento in cui l’accettazione virile del dolore pare cedere alle lacrime e alla commozione, ed è il passaggio in cui il tema viene ri-formulato in modo maggiore. Ebbene, nella ‘lettura’ della Dovgan è passato via in un baleno senza nemmeno un respiro, un pur minimo trattenuto. È giovane, ha virtuosismo da vendere, tecnica pressoché infallibile, sprezzante del pericolo (anche se a dire il vero il suo attacco del suono è sempre di dito, di polso e poco di braccio, pochissimo ‘di spalla’, decisamente nevrotico) e avrà modo – quantomeno glielo auguriamo – di approfondire stile e linguaggio dei sommi della letteratura pianistica. E allora per dire ecco il Beethoven della Sonata detta ‘Les adieux’ in cui cose davvero molto, molto belle e oltremodo raffinate – a onor del vero – si trovavano appaiate a tratti francamente imbarazzanti se non addirittura sconcertanti.
Molto di irrisolto anche nelle sublimi e impegnative Variazioni su un tema di Händel del sommo Brahms. In alcuni passaggi (pochi per la verità) la Dovgan ha regalato innegabili emozioni (la celebre variazione ‘a carillon’, ad esempio, la n. 22) laddove altrove, nelle variazioni fantasmatiche ad ottave ‘scivolate’, pareva mancare del tutto la profondità del suono tanto da renderle pressoché irriconoscibili. Un blocco per nulla monolitico, al contrario un universo immaginifico dove c’è posto per i più diversi atteggiamenti espressivi – le Variazioni-Händel – per l’appunto: del quale la giovanissima pianista pare aver privilegiato solamente l’aspetto atletico. Che non è tutto. Il pianoforte si suona con dita, polsi, avambracci, spalle, con tutto il corpo e soprattutto con la testa e con il cuore. E la conclusiva Fuga va distillata ad arte, avendone compreso in profondità i nessi armonici e la complessa tramatura contrappuntistica: non solamente affrontandola a velocità spericolata. Curiosa poi la scelta di posporre (anziché più ragionevolmente anteporre) alle Variazioni i magnifici e autunnali Tre Intermezzi op. 117. Dei quali è piaciuta sì la delicatezza del primo (ma mancava tutto il gioco polifonico della parte intermedia, e così pure destava perplessità quella sinistra che dovrebbe ‘mimare’ il calore cantabile e ambrato di un violoncello), analogamente si è perso parecchio della desolazione umbratile del terzo, a tratti funereo, forse il più centrato era il più scorrevole e fantasioso secondo Intermezzo. Certo, con un palmarès da far spavento, riconoscimenti internazionali e collaborazioni già ad altissimo livello, la Dovgan non potrà che crescere ulteriormente. Andrà seguita con attenzione nella sua prevedibile evoluzione: come sempre accade con fenomeni di tal fatta, come accadde ad esempio con un Trifonov (che pure alla sua stessa età già lasciava intuire un ben diverso livello di maturità artistica).