di Santi Calabrò

Guido Salvetti

Le Sonate per pianoforte di Beethoven. Tra Heiligenstadt e l’Eroica. Le Sonate dall’op. 14 all’op. 31. Serie diretta da Guido Salvetti sotto gli auspici della Beethoven-Haus di Bonn. Vol. III, LIM, Lucca 2021.

Francesco Scarpellini Pancrazi

Le Sonate per pianoforte di Beethoven. L’affermazione dello “stile eroico”. Le Sonate tra l’op. 53 e l’op. 81a. Serie diretta da Guido Salvetti sotto gli auspici della Beethoven-Haus di Bonn. Vol. IV, LIM, Lucca 2021.

Pur seguendo un comune e collaudato schema triadico (contesto-testo-interpretazione), i volumi della LIM intitolati alle Sonate pianistiche di Beethoven presentano una certa autonomia di metodo. In attesa che a seguire quello introduttivo di Giorgio Sanguinetti siano pubblicati anche il II volume, dedicato alle Sonate del primo periodo, e il V, dedicato alle ultime, i libri III e IV licenziati di recente offrono già “a vista” una notevole differenza: meno di 200 pagine il III (Tra Heiligenstadt e l’Eroica. Le Sonate dall’op. 14 all’op. 31), firmato da Guido Salvetti, più di 600 pagine il IV (L’affermazione dello “stile eroico”. Le Sonate tra l’op. 53 e l’op. 81a), firmato da Francesco Scarpellini Pancrazi. A fronte di dimensioni così diverse, ci si aspetterebbe nel lavoro più agile un’impostazione radicalmente monografica, tutta centrata sulle Sonate prese in esame; dove invece la mole del IV volume parrebbe promettere ampia ospitalità anche per aspetti generali. E invece è esattamente il contrario!

Si può affermare in effetti che buona parte del libro di Salvetti sia una aggiunta all’ouverture della serie editoriale, firmata da Sanguinetti: a riprova non dei limiti del volume di introduzione, decisamente accurato, ma della vastità dell’universo riferibile a Beethoven. In particolare, la prima parte (contesto) del lavoro di Salvetti alterna argomenti generali e focalizzazione su aspetti relativi alle Sonate esaminate, la seconda (testo) segue fedelmente il mandato monografico, analizzando le Sonate dall’op. 14 all’op. 31, e la terza (interpretazione) è ancora più scopertamente “globale” della prima, con la storia delle edizioni delle Sonate beethoveniane fino ai nostri giorni (le citazioni di indicazioni per l’esecuzione, che si riferiscono alle Sonate analizzate nel volume, contribuiscono a illustrare i criteri complessivi dell’edizione da cui sono tratte). Al momento resta escluso dalla serie della LIM un approfondimento sugli interpreti, se non nella mera ricognizione dei tempi di esecuzione effettuata da Scarpellini Pancrazi. Tuttavia, anche nel testo di Salvetti gli argomenti riconducibili all’interpretazione delle Sonate beethoveniane sono pertinenti e ben sviluppati. Annodando nozioni di storia, filologia e critica del testo, lo studioso mostra la differente visione culturale fra le diverse edizioni: un confronto rispetto a cui ogni esecutore oggi non può esimersi. In confronto al passato è infatti diventato facile reperire in rete edizioni diverse e persino manoscritti. Non si può dunque non riconoscere l’utilità “pedagogica” dell’excursus di Salvetti: se, come affermava Alfred Brendel venti anni fa, «every generation of musicians is unconsciously influenced by the editions with which it has grown up», oggi c’è la possibilità di essere influenzati in maniera più consapevole. Di sequenziare la propria influenza, come direbbero i virologi!

Nella prima parte Salvetti si diffonde su nodi storiografici di ampio respiro, come la particolare configurazione del rapporto tra mecenatismo e indipendenza artistica nella vicenda biografica beethoveniana, gli influssi di idee illuministiche e romantiche nel quadro spirituale del compositore, e i rivolgimenti epocali che mettono alla prova una parte di quelle idee, eventi i cui effetti ben si avvertono a Vienna (negli anni delle occupazioni napoleoniche e poi del Congresso che avviò la Restaurazione, la capitale asburgica era uno dei luoghi principali in cui, scrive Salvetti, «si faceva la Storia»). Il complesso di mediazioni tra avvenimenti, autore, ideali e arte sfocia in punti di arrivo tanto incisivi quanto ben motivati: «l’utopia guidò i giudizi e i comportamenti del giovane Beethoven, più che una chiara comprensione degli eventi storici nei quali era immerso»; nell’insieme, secondo Salvetti, si avverte «il disagio di un artista che vorrebbe non essere distratto dalla sua opera per le preoccupazioni materiali», ma che tiene ferma la necessità di «distinguere le idee di cui i grandi uomini sono portatori dalle loro azioni». Sul punto dell’ascesa, decadenza e caduta dell’infatuazione napoleonica, le conclusioni di Salvetti oltre che nei riferimenti della sua trattazione possono essere ulteriormente verificate nell’intarsio accuratissimo di vicende storiche e biografiche del volume di Scarpellini Pancrazi. Dal libro di Salvetti emerge soprattutto l’opportunità di separare ricostruzione storica e giudizio sull’opera non tanto sulla base del presupposto formalistico di un’assoluta autonomia dell’arte, quanto assumendo che gli ideali di eroe e di sacrificio, di palingenesi universale e di libertà, oltre che la fiducia nel progresso, restino sostanzialmente intoccati da traversie biografiche e disillusioni epocali. Si può essere delusi dalla storia, ma ciò non sfiora la potenza artistica e le implicazioni morali della Sinfonia Eroica o della Marcia funebre della Sonata op. 26! Lo sguardo di Salvetti include comparazioni a largo raggio: lo studioso cita le riflessioni di poco successive di Heine e accosta a Beethoven anche Ugo Foscolo. Non viene richiamato a ulteriore confronto, probabilmente solo per esigenza di sintesi, il percorso di Vittorio Alfieri, che si svolge in anticipo ma è altrettanto illuminante nel mostrare, come in Beethoven, la stabilità delle idee e della loro trasmutazione in arte a fronte delle oscillazioni delle contingenze (la passione di Alfieri per la rivoluzione francese durerà pochissimo: poi gli esiti lo deludono e diventa “misogallo”, cioè antifrancese. Ma anche negli ultimi anni, in cui vive più appartato, Alfieri non può impedire che la sua arte costituisca un riferimento per molti patrioti italiani, inclusi i più tenaci simpatizzanti per la Francia).

Entrando nello specifico musicale, Salvetti si mostra particolarmente interessato al modo con cui Beethoven attua un percorso consapevolmente votato a opere innovative, offre in questo senso molte osservazioni pertinenti nel descrivere le singole Sonate, ed è particolarmente preciso nel delineare l’evoluzione della tecnica della variazione. La trattazione è tuttavia meno convincente nell’indicare una linea progressiva anche a livello formale. Gli argomenti adatti a predisporre un fil rouge che in parte regola e in parte condiziona l’analisi si profilano già nella prima parte del libro: non si può che essere fiduciosi in una dichiarazione di intenti finalizzata a evidenziare in Beethoven «solidità, energia e solarità», ma la speranza si vela di attesa dubbiosa appena lo studioso dichiara il suo rifiuto a «intestare queste qualità alla categoria del ‘classicismo’». Cosa mai intenderà con ‘classicismo’? Le prime specificazioni già preoccupano: «solidità, energia e solarità vennero indirizzate, nel caso di Beethoven, a scardinare convenzioni e acquisizioni». Lo studioso dichiara che le Sonate di cui si occupa nel volume segnano una «linea di demarcazione» con le opere dei primi anni viennesi, ma attribuisce nello stesso tempo a Beethoven la consapevolezza «di essere depositario di una serie di tecniche, di per sé non soggette ad evoluzione storica, a cui affidare le sue idee». Il fatto che fra quelle tecniche preesistenti, ora adibite a “scardinare”, il riferimento alla lezione appresa da Haydn e Mozart venga limitato alla «elaborazione tematica» (aspetto importante, ma non certo unico influsso delle opere di entrambi su Beethoven) appare curioso e tradisce, se non una rimozione, almeno una collocazione in secondo piano dell’insieme di caratteristiche proprie allo stile classico viennese, cioè del terreno dentro cui germoglia la parabola di Beethoven. Come altri studiosi (su tutti quelli che evocano “norme” e “deformazioni”), anche Salvetti probabilmente non è d’accordo con quanto affermava Tovey, per il quale «non sono state tanto le forme, quanto la sua forza drammatica a conferire a Beethoven la reputazione di un rivoluzionario in musica». In ogni caso molti punti della sezione più monografica del libro conseguono alle premesse, facendo persino aleggiare l’idea che lo stile classico in generale e lo stile del primo Beethoven in particolare contemplino l’osservanza giudiziosa di uno standard fisso a livello formale. Ricordando le preferenze dell’editore Nägeli (che chiedeva ai musicisti sonate diverse dalla «solita forma-sonata»), lo stesso Salvetti osserva come alcune delle caratteristiche auspicate siano già rilevabili nella «Sonata in re maggiore op. 7» (si riferisce alla Sonata n. 7 op. 10 n. 3, con un refuso che ricorre), ma non cita altri esempi possibili del primo periodo e punta dritto, in nome della «linea di demarcazione», a descrivere a partire dall’op. 26 «l’autentico terremoto che […] giunge ad eclissare la ben ordinata sequenza della forma in quattro movimenti». Proprio da quel sismografo, che avrà registrato evidentemente come scossa di superficie la Sonata K. 331 di Mozart (e come trascurabili assestamenti le Fantasie mozartiane), si generano delle crepe. È vero che nell’op. 26 il Finale è in forma-sonata e il I movimento è un tema con variazioni, ma un manoscritto rivela, come anche Salvetti ricorda, che l’intenzione originaria rispetto a quello che poi diventerà il Finale era diversa (farne il I movimento). Quanto allo tsunami dell’op. 27, con le due “Sonate quasi una fantasia”, non è sostenibile che il Finale dell’op. 27 n. 1 non appartenga alla forma sonatistica (è un evidente Rondò-sonata), e risultano piuttosto incerti anche gli argomenti intesi a sminuire la presenza di un’architettura sonatistica nell’Adagio iniziale (innovativo di certo, ma per altri aspetti) della Sonata op. 27 n. 2 Al chiaro di luna, o per piegare alla linea adottata le particolarità del Finale. Per Salvetti, nel celebre Adagio lo schema formale «esclude di essere assimilato a una struttura sonatistica» in quanto lo sviluppo è “statico” invece che “tensivo” (in realtà è facile richiamare altri casi di sviluppi “rilassati”, in Beethoven e non solo). E a proposito del Finale dell’op. 27 n. 2, pur ammettendone una chiara articolazione in forma-sonata, lo studioso attribuisce alla sua potente coda grandi portati di novità formale. Al netto della discutibile enfasi su questo aspetto, non si può che essere felici di trovare un musicologo dallo sguardo libero, che descrive con accuratezza una coda sonatistica e non tiene in conto taluni diffusi orientamenti dell’analisi odierna, decisamente gravati da irrigidimento tassonomico (per il quale tutto quello che c’è dopo una determinata cadenza risolutiva non sarebbe “strutturale”). Anche questa Sonata, peraltro, permette di risalire a una delle più pervasive innovazioni di concezione, esplicata in soluzioni diverse, delle Sonate beethoveniane di questo periodo: «spostare parzialmente il peso di una composizione dal primo movimento all’ultimo» (Rosen), nel quadro di un’attenzione all’equilibrio complessivo delle composizioni in più movimenti che rimarrà costante nel percorso di Beethoven. Vero, oltre a questo, che proprio dall’op. 26 si avverte qualcosa di nuovo: la sua «struttura ritmica di ampia portata» è il presupposto per attingere a una «certa grandeur senza alcun ricorso all’imitazione di effetti orchestrali o al virtuosismo» (Rosen). Salvetti cerca altri e magari più precisabili principi evolutivi unitari, ma li categorizza in maniera non sempre ben motivata. Se ciò non gli impedisce di descrivere e analizzare in modo vivo e interessante, tanto da far perdonare qualche opinabile “superamento della forma-sonata”, in qualche caso, soprattutto nelle ultime opere esaminate, la categoria si fa pregiudizio che genera rilevazioni curiose e qualche omissione. Nel primo movimento della Sonata in re min. op. 31 n. 2 il rapporto tra il tono di impianto e la dominante minore diventa per Salvetti elemento di «uscita dalla ‘solita forma’» (e invece è una delle due possibilità comuni alle esposizioni classiche in modo minore). All’opposto, nell’op. 31 n. 1, lo studioso mostra giustamente come il Finale «determini un percorso di complessità e importanza crescenti», ma non rileva la più significativa novità strutturale del movimento iniziale, cioè la modulazione alla mediante. Salvetti fa sì riferimento al percorso tonale, ma per definirlo «funzionale al dispiegarsi di […] temi in odore di antico». Il che è una mezza verità (tutt’altro che banale e tale da rintracciare anche nel I movimento i segni di quel particolare manierismo all’antica che unanimemente viene riscontrato nel movimento centrale di questa Sonata), ma a condizione di aggiungere l’altra mezza: Beethoven è originale e innovativo anche, se non soprattutto, quando guarda all’indietro!

Evidenziando gli elementi salienti della Waldstein (la prima delle Sonate cui è dedicata la sua trattazione), Scarpellini Pancrazi non solo sottolinea il fatto che ci sia una relazione di mediante nella seconda area dell’esposizione del movimento iniziale, ma fa riferimento all’Ouverture Leonore III (stessi rapporti tonali e identica tonalità dell’op. 53), alla Sonata op. 31 n. 1 (stessi rapporti tonali), al Quintetto op. 29 e al Triplo Concerto (seconda area sul VI grado). Vengono forse ignorate tutte le altre composizioni di anni seguenti con analoghe relazioni di terza? Certo che no: vengono citate in nota! La soluzione del piè di pagina, spesso adottata quando il discorso rischia lo sconfinamento in aree assegnate ad altri studiosi, assicura la completezza del quadro e soddisfa lo scrupolo di stare dentro i termini delle opere esaminate nel volume (diversamente, si sarebbero superate facilmente le mille e più pagine). Già questo esempio chiarisce come sia concepito il libro di Scarpellini Pancrazi, studioso infaticabile che unisce le vocazioni del filologo, dello storico, dell’analista e dello specialista beethoveniano: vi si trova praticamente tutto ciò che riguardi le Sonate in esame. In qualche caso il prezzo da pagare è che se un esercito di dati costituisce una ricchezza, il loro numero e la loro natura non permettono che siano tutti “interpretati”, o che risalti il dato critico saliente, se pur esplicitato nel testo. Sono effetti collaterali inevitabili quando ci si muove con un microscopio potente che tende a mettere in secondo piano il cannocchiale, strumento più adatto, per dirla con Braudel, a “tempi lunghi” e “strutture”. Per esempio, proprio nel caso delle tonalità mediantiche utilizzate da Beethoven anche come tono principale di contrasto a quello di impianto, il libro lascerebbe libero il lettore distratto di concludere erroneamente che le soluzioni beethoveniane siano una prefigurazione dell’armonia romantica, dove una prospettiva magari meno minuziosa ma allargata a tutte le opere di Beethoven, alle musiche precedenti e alle tipiche opere del romanticismo successivo chiarisce bene come le alternative adottate da Beethoven vengano usate esattamente come la dominante (generando una tensione macroformale che va risolta, per lo più all’interno di salde coordinate diatoniche; in modo dunque ben distinto rispetto ai confini tonali allargati del cromatismo romantico e a tutte le sue conseguenze). È difficile peraltro che certi errori di interpretazione, spesso riscontrabili in altri studi, vengano fuori immergendosi con attenzione nel mondo di Beethoven attraverso un lavoro micrologico come quello di Scarpellini Pancrazi, che a ogni passo rimanda alla coerenza interna, alle costanti, non meno che alle spinte progressive, alle varianti, della personalità e della produzione di Beethoven. Inoltre, quando le questioni afferiscono puntualmente al corpo stesso delle opere esaminate, Scarpellini Pancrazi non si risparmia, esponendo delle tesi personali saldamente impiantate sulla conoscenza capillare delle partiture e della letteratura musicologica specifica.           

Già l’introduzione del volume presenta una spettacolare innovazione critica, ben visibile ed esibita, e figlia legittima sia della minuzia che della sintesi: una ragionata sottodivisione in quattro periodi di quello che di solito viene identificato, sulla scia della tripartizione complessiva del Lenz, come “secondo periodo beethoveniano”. Il cuore della produzione di Beehoven, il cosiddetto periodo “eroico” (per Adorno il “Beethoven integro”), viene distinto da Scarpellini Pancrazi in una prima fase “delle origini”, una seconda di “affermazione e maturità”, una terza “patriottico-politica” e una quarta fase “contemplativa”. Quest’ultima, sovrapposta alla precedente, occupa diversi anni, anticipa la cantabilità romantica e «finisce per trasfigurarsi invece nell’originalissimo e spesso avanguardistico ‘terzo stile’». Lo stesso Scarpellini Pancrazi segnala pochissime opere (le Sonate per vl. e pf. op. 23 e op. 24, la Seconda Sinfonia) che non si possono inquadrare nella sua partizione se cronologicamente rientrano nel primo dei sottoperiodi delineati, vanno considerate stilisticamente ascrivibili a una fase precedente. Per il resto, la proposta regge a una tripla verifica (cronologica, stilistica e nei differenti generi) con una compattezza difficilmente rintracciabile in altre partizioni parziali o totali del percorso di Beethoven. L’incipit del libro funziona così come un sontuoso portale gotico che, mentre introduce, racchiude in sé e promette di distendere nei passaggi successivi tutte le ricchezze della cattedrale. In effetti, attraversare le navate del “contesto” e del “testo” con la guida virgiliana di Scarpellini Pancrazi è una vera esperienza, una full immersion in cui non si trascura nessun dettaglio, incluse le cappelle laterali o addirittura i segreti del confessionale (spesso disseminati negli epistolari), ma sempre tenendo presente l’obiettivo più importante: l’altare maggiore, dove sono custodite le opere. Persino le dediche delle Sonate vengono sottoposte a “istruttoria”, approdando a motivate riletture – quali la tesi che alcune dediche siano di “copertura” per celare, con i nomi del fratello Franz e della sorella Therese, la vera destinataria a lungo, e vanamente, amata e desiderata (Josephine von Brunswick); oppure lo scavo nelle ragioni segrete di una dedica famosa (e fin troppo rimandata a petto dei meriti del conte Waldstein, determinante mecenate degli anni giovanili). Nel primo caso l’indagine viene condotta segnalando anche motivi musicali in comune con il Lied op. 32 (senza dedica, ma scritto sicuramente per la sorella “giusta”): l’analisi del Lied diventa la prova regina di un corredo di indizi (circostanze, testimonianze, lettere) che evidenziano come alcune Sonate (op. 57 e op. 78) siano troppo “appassionate” o intrise di tenerezze amorose per risultare ispirate da Franz o dalla stessa Therese, che era solo una cara amica. La dedica a Waldstein riveste invece anche un particolare significato politico. Essa è apposta proprio alla Sonata op. 53, che l’analisi motivica rivela costruita con lo stesso materiale di base della Sinfonia Eroica, e proprio nel momento in cui il tourbillon guerresco tra Francia e Austria segna uno dei momenti più critici per i viennesi. Per Scarpellini Pancrazi in quei tornanti Beethoven sente di dover legare la celebrazione musicale dell’eroismo a uno dei più fieramente antifrancesi fra i comandanti delle milizie asburgiche. Non manca nel libro la descrizione dei diversi strumenti posseduti da Beethoven, la cui vita intreccia decenni di frenetico fervore innovativo fra i costruttori, con l’analisi accurata del loro peculiare apporto alle diverse Sonate. Sono precisamente individuate anche le influenze di compositori e pianisti minori, come la trovata di Steibelt, ampiamente sperimentata per épater i parigini, del tremolo a lungo sostenuto del pedale, che in aggiunta alle caratteristiche del fortepiano Érard fa sì che la Waldstein, nonostante cada in occorrenze “misogalle”, sia la «più francese delle Sonate di Beethoven». Nello stesso periodo la trasposizione su livelli di arte assoluta degli effetti timbrici di Steibelt stimolerà la fluidità sonora, non meno spettacolare, dell’op. 57, dove lo studioso rileva anche la trasposizione dell’eroismo al livello visibile dell’esecutore: «le difficoltà che il pianista, rischiando l’insuccesso, affronta nell’esecuzione, sono le difficoltà che l’eroe, rischiando la vita, affronta sul proprio campo di battaglia». Particolarmente incisiva, a livello analitico, la caratterizzazione unitaria di questa Sonata anche sulla base della sistematica presentazione del materiale musicale in registri diversi. Certo, non tutte le ipotesi di Scarpellini Pancrazi possono essere verificate in modo assoluto come alcune sue osservazioni di pertinenza analitica: ma la ricerca storico-biografica e musicologica (e, aggiungeremmo, umanistica) non è un algoritmo, è apertura di conoscenza tramite il metodo, il percorso, la capacità di connessione critica rispetto ad ogni fronte di indagine implicato.

La preminenza euristica del processo di indagine sul suo prodotto si fa ancora più evidente nei casi in cui Scarpellini Pancrazi sembra apparentemente dilungarsi su obiettivi di discutibile importanza. Lo studioso tiene tanto, nella “eroica” parte centrale del suo volume, a segmentare la forma musicale con precisione, spiegando caso per caso le ragioni delle sue opinioni su dove inizi esattamente una transizione, una seconda area, uno sviluppo, una ripresa o una coda (tanto più se le sue partizioni non coincidono con quelle di altri analisti). Può sembrare eccesso di acribia morfologica, visto che di fatto proprio la continuità o addirittura l’ambiguità dei passaggi fra le sezioni rientra tra le intenzioni evidenti di molti capolavori strumentali (in Haydn, in Beethoven, in Schubert, in Brahms). In realtà gli argomenti di Scarpellini Pancrazi, mentre approdano alla partizione (che tende sempre per sua essenza a risultare statica), danno conto delle dinamiche e delle interdipendenze dialettiche con cui si distende temporalmente la musica beethoveniana: osservando per esempio come le differenti letture della forma implichino l’attribuzione di un diverso rilievo al «primo punto di spostamento tonale» oppure «all’inizio del materiale che lo contiene», l’autore apre alla prospettiva morfologica alcune delle più tipiche opzioni per l’esecutore (e viceversa). Anche la sezione sulle fonti che precede l’analisi di ogni Sonata si rivela pregnante di sensibilità musicale. Scarpellini Pancrazi restituisce una filologia “viva”, dove le differenti lezioni degli autografi e delle prime edizioni, come anche gli interventi dell’autore di dubbia interpretazione o in contraddizione con le indicazioni di passaggi analoghi, vengono discussi alla luce della evoluzione sia del significato di alcuni segni di notazione, sia del senso del fraseggio (processi storici di cui il corpus delle opere di Beethoven costituisce un centro nodale). Nel contempo sono chiamate in causa le soluzioni adottate dalle edizioni, anche le più recenti, citando per esteso in qualche caso le ragioni esposte negli apparati critici. A volte Scarpellini Pancrazi richiama esplicitamente il lettore al significato di “uso” della filologia (per esempio, invitando a «riflettere sull’articolazione ritmica», o «sulle sue possibili varianti»). Di fatto queste corpose parti del libro si prestano non solo allo studio filologico accademico ma anche alla frequente rilettura dei pianisti, alla consultazione ogni qualvolta si legga o si riprenda una Sonata: è prezioso per un esecutore avere un siffatto quadro di insieme, in ordine alla possibilità di una scelta ragionata tra lezioni dubbie e in generale come supporto a delimitare i margini legittimi di possibilità interpretative offerti dall’opera beethoveniana. Utilissimo, in questo senso, anche l’ulteriore lavoro paziente di Scarpellini Pancrazi, che sequenzia i raggruppamenti di battute di ogni Sonata, evidenziando i gruppi irregolari. L’importanza di questo tipo di visione macroformale era sostenuta, e praticata anche in veste di curatore editoriale, dal più influente dei pianisti beethoveniani del secolo scorso, Artur Schnabel. Va sempre ricordato il suo ammonimento: «non c’è esecuzione di una Sonata di Beethoven che possa essere all’altezza dell’opera stessa». Evidentemente Schnabel non era scoraggiato da questa convinzione! In tempi in cui c’è chi predica da troni accademici il superamento del “paradigma testualista”, e vorrebbe “rinfrescare la performance” (sic) sul fondamento della soggettività (dell’interprete!), ai fini di una “ricerca artistica non musicologica” (qualsiasi cosa significhi), arrivano come ventate di aria fresca gli apporti di una musicologia solida e intrisa di filologia, che ripercorre la via ermeneutica di un’esecuzione regolata a partire dal testo.   

Santi Calabrò

Santi Calabrò

Pianista e musicologo, suona per prestigiose istituzioni, tiene concerti-conferenza e partecipa a convegni in Italia e all’estero. Nelle ultime stagioni ha eseguito con successo diversi concerti per pianoforte e orchestra in Italia, Romania, Ucraina, Bulgaria, e ha tenuto recital e masterclass in varie città italiane ed europee. Svolge attività di critico musicale, pubblica articoli su riviste specializzate ed è autore di saggi per volumi collettanei; si occupa di analisi musicale, drammaturgia musicale, analisi dell’interpretazione, metodologia della tecnica pianistica. Fra i saggi recenti: Tra classicità e teoria degli affetti: Lili Kraus interprete di Mozart (nell’Ebook Punti e contrappunti), La lezione metodologica hegeliana e il “dramma” tonale del sonatismo classico (nel volume Il lamento dell’ideale. Beethoven e la filosofia hegeliana, Eut, Trieste), Artur Schnabel and the Harmonic Functions (nel volume Performance Analysis: a Bridge Between Theory And Interpretation - Cambridge Scholars Publishing), Trasmutazione di un archetipo e sue conseguenze nel I movimento della Sonata op. 110 di Beethoven (Rivista di Analisi e Teoria Musicale). Vincitore di concorso nazionale, insegna presso il Conservatorio di Messina.

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