di Ida Zicari
«L’Italia attuale, anziché in ballo, sembra in stallo»: con un gioco di allitterazione, Elisa Guzzo Vaccarino mette a fuoco la situazione della danza italiana degli ultimi anni. L’affermazione, sintetica e incisiva, si diffonde condivisa nelle pagine del libro La danza in Italia nel Novecento e oltre: teorie, pratiche, identità, curato da Elena Cervellati e Giulia Taddeo. Il volume raccoglie gli atti del convegno che si è svolto a Bologna nel marzo del 2019, esattamente un anno prima dell’uragano covid in Italia. Risultato di indagini svolte attraverso approcci e metodologie di osservazione diversificati, i contributi ospitati nella pubblicazione sono numerosi, ma insieme convergenti verso un unitario oggetto di studio: la danza italiana dei tempi a noi prossimi e la questione della riconoscibilità di un’identità nazionale. La danza trattata è principalmente quella teatrale, presa in esame in prospettiva critica e storica, con i lavori di Silvia Poletti, Giulia Taddeo, Elena Cervellati, Eugenia Casini Ropa, Silvia Carandini, Marinella Guatterini, Elisa Guzzo Vaccarino, Elena Randi; in prospettiva artistica, con gli interventi di Alina Nari, Adriana Borriello, Alessandra Sini, Simona Bertozzi; in prospettiva istituzionale e promozionale, con Fulvio Macciardi (Teatro Comunale di Bologna), Francesca Magnini (Balletto di Roma), Marino Pedroni (Teatro Comunale di Ferrara).
Il paesaggio coreutico italiano, che si costruisce complessivamente, si contraddistingue per la fragilità del sistema danza attuale, considerata sia nell’aspetto produttivo sia in quello ricettivo, e per la problematicità insita nella definizione identitaria del fenomeno danza in senso specificamente italiano. E quanto emerge dalla visione critica d’insieme è ascrivibile a un’arretratezza e una spiccata tendenza al dilettantismo e al conformismo, connotativi degli ambienti di formazione di danzatori e coreografi, dei settori di erogazione dei fondi e in quelli di orientamento culturale del pubblico.
Importante occasione di dialogo e di confronto, il convegno bolognese offre l’opportunità di spingere la riflessione anche oltre i confini puramente coreutici. Più che mai lucida e appropriata, l’analisi del presente condotta da Marinella Guatterini sottolinea come negli ultimi venti anni l’Italia si sia «votata a un progressivo depotenziamento culturale che passa dalle Università, a tutti gli istituti culturali, e scende sino alle scuole dell’obbligo, ai Licei». E il risultato inevitabile è il dilagare dell’ignoranza che, se resa sistemica, mette a repentaglio la tenuta stessa del progresso civile e democratico nella nostra società.
Ma, a fronte dello “stallo”, dello sprofondamento di molte compagnie italiane nel baratro dei tagli e dello sparuto numero di coreografi introdotti nei repertori nazionali e internazionali, le forze in gioco di danzatori potenziali e aspiranti artisti contano su numeri altissimi. Tanta profusione di energie, però, troppo spesso si consuma nella morsa di una società politicamente, eticamente e culturalmente incapace di accoglierle e valorizzarle. E se nel corso del XX secolo la storia della nostra danza non ha mancato di registrare episodi di grande fermento creativo e produttivo, cionondimeno il declino seguito all’indomani della felice stagione degli anni Ottanta è avanzato inarrestabile fino a oggi. Inutile, in questa sede, ribadire che la pandemia da covid ha inferto il colpo di grazia all’ormai sofferente stato dell’arte.
Per quanto riguarda, poi, la questione dell’individuazione di una linea italiana della pratica coreutica, ovvero della riconoscibilità di un’identità italiana novecentesca e oltre, le parole di Silvia Carandini intervengono risolutive a sciogliere ogni difficoltà: «Se poi una reale specificità coreutica italiana e una continuità organica di sviluppo risultano oggi ancora difficilmente delineabili, non c’è troppo da preoccuparsi». Altra è, infatti, la preoccupazione: bisogna ancora battersi per ottenere «un solido apparato di sostegno sia pubblico che privato, un pubblico partecipe e informato, spazi dedicati e strutture formative di livello, una coscienza critica diffusa, aperta e coraggiosa».