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Alla Scala in scena l’opera di Verdi con la direzione di Gianandrea Noseda, regia di Mario Martone. Bene la prova di Leo Nucci
di Francesco Gala
N essuna forma d’arte prescinde dal rapporto intrinseco con i destinatari, anche nel caso che la loro identità coincida con quella dei creatori. Il luogo ed il tempo in cui si consuma l’evento sono fattori fondamentali nell’opera lirica. Questa Luisa Miller, dunque, non fa eccezione. È pensata per andare in scena alla Scala, nel 2012 (dopo 23 anni d’assenza del titolo, se si eccettua una produzione in forma di concerto) e per essere fruita, essenzialmente, da un pubblico estemporaneo, che non conosce l’opera né tanto meno i fondamenti del canto lirico: una sala popolata – in massima parte – da turisti della musica, contenti di essere alla Scala. Pochissimi sono stati i dissensi e davvero superfluo un commento isolato urlato da uno spettatore (“teatro da provincia”) al termine dell’aria del soprano, cuore dell’atto secondo. Ma di quale provincia parla questo signore? Se esistesse davvero una provincia (magari una provincia con la p maiuscola), certe cose non si ascolterebbero a Milano. Accapigliarsi attorno a questioni estetiche legate alla tradizione esecutiva del titolo – un tempo dominio di tanti – apparirebbe oggi, ai più, tedioso ed inutile. Eppure questo lavoro verdiano, come tutti gli altri, nasce per essere rappresentato rispettando esigenze ben precise. Il tempo è tiranno, come per la preparazione dello spettacolo: tre titoli in poco più di un mese, in aggiunta ad una produzione d’accademia. Si pensa già alla prossima opera e questa Luisa Miller è digerita. L’opera lirica, come l’abbiamo conosciuta nei secoli, è morente. Forse, anzi, è morta da un pezzo.
Alla fine di una première come quella dell’altro ieri sera ci si ritrova a parlare della regia, anche se si vorrebbe discutere di musica. Ma, del resto, come si fa? Svolge e travolge il tutto (o il poco, a seconda) la direzione di Gianandrea Noseda. Ciò che colpisce maggiormente è l’estrema tensione impressa già dalla Sinfonia. Il passo concentrato del direttore legge l’opera senza interruzione di continuità. Gli attacchi sono precisi e il suono è compatto e nitido; qualità nient’affatto frequente sul podio della Scala in questa stagione, a meno che non dirigano Albrecht e Ticciati. Troppo misurata, però, resta la volontà di variare e colorare le frasi musicali, di rendere duttili i piani sonori. Però il suono orchestrale è, di rado, caricato e pesante. Scarseggia, invece, il malinconico lirismo, in particolare nel meraviglioso atto terzo, uno dei tanti vertici dell’arte di Verdi. Ma si può dare esegesi di un testo verdiano che prescinda dalla costruzione dell’opera con gli interpreti vocali? No, è impossibile. Con un direttore solo un po’ meno solerte e navigato di Noseda, questa Luisa Miller sarebbe risultata insopportabile dopo la prima mezz’ora. L’agogica serrata del maestro è cucita sulle esigue facoltà vocali dei cantanti. Il direttore corre in soccorso a tutti quanti, a costo – in più occasioni – di discostarsi dalle molte indicazioni presenti in partitura.
Nuovo è l’allestimento di un bravo regista, Mario Martone che si ricorda con piacere per il Così fan tutte a Ferrara e per il dittico Pagliacci/Cavalleria alla Scala
Sarebbe ingiusto domandare ad un anziano artista di servire il compositore affrontando uno dei ruoli più difficili scritti da Verdi per corda baritonale. La prestazione di Leo Nucci sta tutta nell’invidiabile sol naturale esibito al termine della cabaletta e in una voce che si mantiene ancor salda nell’emissione, perché sempre sul fiato, ed è l’unica ad essere proiettata correttamente in sala, come già si avverte ascoltando i suoi a parte dell’Introduzione. Impossibilitato ad avventurarsi su dinamiche che non siano il mf e il f, il canto del baritono non può certo restituire l’umanità nobile e struggente del personaggio. Analizzare il resto del comparto vocale sulla base del belcanto, del canto verdiano, del fraseggio all’italiana e simili anticaglie sarebbe assurdo. Regola numero uno, qui, è qui il canto di strozza, di gola insomma: quello che non lega, che non respira, che prende fiati eterodossi. Un canto impossibilitato a fraseggiare, in difetto d’intonazione, monotono sempre e che ricorre al muggito, in assenza di tecnica. Il canto dei “non”, insomma. È una nuova disciplina. Per la parte di Walter occorrerebbe un basso; qui lo è solo nominalmente. Si vorrebbe ascoltare un tenore che non ricordi una sorta di compare Turiddu, la cui qualità non poggi su una natura già compromessa e che non raggiunga gli acuti ghermendoli con sforzi esibiti; che canti sul p e su pp senza spoggiare, come nella seconda strofa dell’aria, affrontata con agitata enfasi quanto la cabaletta (un generico “all’armi”, provvidenzialmente non replicato), pur rappresentando momenti drammatici assai differenti. Per la duchessa si vorrebbe, almeno, un mezzosoprano capace di risolvere la bella cadenza (sol4-sol2) senza mostrare una voce spezzata in due, tre tronconi. E cosa resta di Wurm, il personaggio di sottile ed insinuante perfidia, quasi un antenato di Jago? Pensare che Verdi – sempre a caccia di soggetti ad uso Shakespeare – si raccomandò tanto con Cammarano per conferire al personaggio un tratto comico! La scelta di scritturare un soprano leggero dai suoni flautati per la parte della protagonista, poi, ci racconta il disagio di un teatro impossibilitato a reperire un soprano lirico-spinto che sia in grado di affrontare tutte le asperità di una parte così ambigua. Ma, in fondo, la signora canta anche Norma, quindi nessuno si stupisce.
Nuovo è l’allestimento di un bravo regista, Mario Martone che si ricorda con piacere per il Così fan tutte a Ferrara e per il dittico Pagliacci/Cavalleria alla Scala. I luoghi dell’azione scelti per questa Luisa Miller vorrebbero possedere una carica simbolica capace di raccontare (forse da soli) la vicenda. Sulla scena si alternano e sovrappongono una foresta, un parlamento, una poltrona, una sedia con giacca militare (quella del vecchio Miller), una grande saracinesca. E, soprattutto, un letto: oggetto, c’è da crederlo, completamente assente dai palcoscenici degli ultimi vent’anni. Le scelte scenografiche avrebbero bisogno di una conduzione registica capace di trasformare tali arnesi nel fulcro narrativo, materializzando segni e significati. Vi riescono solo in minima parte. La caratterizzazione maschile è talmente neutra da essere affidata alla buona (o cattiva prassi) dei cantanti: un tenore sempre con la mano avanti, in accorato appello al loggione, e un baritono pressoché immobile. Un po’ più d’attenzione è riservata alle due donne. Prima la duchessa. Una signora vestita da arricchita che – mentre conversa col tenore ricordando l’innocente infanzia trascorsa con lui – comincia a denudarsi nel tentativo di sedurlo mostrando forme assai poco invitanti. Ma, sul già citato letto, il villano Rodolfo – c’è da giurarci – si accontenterebbe. Poi Luisa. La quale, nell’atto terzo, trasforma scenicamente una pagina dolce ed amarissima («La tomba è un letto sparso di fiori»), incubo leggiadro del suicidio, spargendo fiori (naturalmente sull’alcova) al ritmo spigliato dell’orchestra che l’accompagna. E in un attimo siamo precipitati nell’atmosfera bucolica dell’Introduzione dell’atto primo; qualunque progredire drammatico è svilito. Tanto quanto sono mortificate le differenze sociali che staccano i personaggi (motore principale della vicenda), accomunati da una gestualità generica, per demerito della quale il servo ed il padrone si equiparano. Cosa avrà mai di così antipatico il Tirolo della prima metà del XVII secolo? Se lo domanda lo spettatore che si trova davanti alla solita sfilata di giacche e cravatte, cappotti lunghi fino ai piedi, abiti da sera chiamati a distinguere un paio di personaggi da un volgo anonimo. Un déjà vu che è in realtà un déjà revu, riproposto – però – all’infinito. Ben altro lavoro regisitico si apprezzava a Parma grazie a Denis Kriev, in uno spettacolo che accentuava le classi sociali di una vicenda riambientata in un ‘900 alla Bertolucci. Si stenta a comprendere le ragioni di un allestimento tanto svogliato, frutto del lavoro del regista messo di fronte niente meno che ad un’opera tratta dal monumento dello Sturm und Drang di Friedrich Schiller.
Il duetto Walter-Wurm (quello che resta del coté politico della vicenda trasformata dal libretto) avrebbe potuto accendere la fantasia di un artista impegnato come Martone. Invece nulla. Nella regia di Merrill al MET (che gli ignoranti definirebbero “tradizionale”) bastava il gesto del pugnale sotto la gola a raccontare il perverso rapporto che lega fra loro i personaggi. Qui nulla di tutto questo. I due potrebbero conversare di sport e l’effetto sarebbe il medesimo.
Al termine cinque minuti di applausi. Un successo datato 6 giugno 2012.