Opera | Doppia recensione | Secondo cast
Un dramma più immaginato che agito nella regia di Francesco Micheli. Il direttore Myung-Whun Chung alla guida dell’Orchestra e del Coro del teatro veneziano in un’esecuzione smagliante
di Elena Filini
O tello, quando il male è dentro di noi. Va in scena l’ordinaria storia delle ossessioni umane al Gran Teatro La Fenice con la penultima opera di Giuseppe Verdi scelta – insieme con Tristan und Isolde – per il doppio omaggio a Verdi-Wagner che è stato salutato come uno degli eventi internazionali del bicentenario. E il vero Serenissimo Leone è lui: Myung-Whun Chung, alla testa di un’orchestra in forma smagliante e di un coro dalla prestazione davvero ragguardevole. Straordinarie le masse artistiche del Teatro, vero tronco dell’Otello che ha aperto la stagione 2012-2013, e di cui si racconta la recita del 27 novembre.
La scena nuda ed elegante, i costumi severi ma di pregevolissima fattura disegnano un dramma più immaginato che agito: la chiave della regia di Francesco Micheli, nel bene e nel male, sta qui. Nella proiezione di una mente che immagina tempeste e vascelli, che vede tremuoti e rovina, ma che da sé si consuma. Una scelta radicale, che ha una sua personalità e nel contempo prende un ampio rischio. Certo, il finale quasi a conforto è davvero un duro colpo assestato al bisogno di tragedia che l’archetipo rappresenta. Ma tant’è: sotto il folto zodiaco di ossessioni e stati allucinati, dove bene e male spesso s’invertono, può addirittura trovare spazio l’abbraccio finale tra Otello e Desdemona che, angeli, demoni o iperumani s’incamminano insieme verso il firmamento.
Walter Fraccaro dispiega tutti i suoi mezzi nel quadrare uno dei ruoli più impervi e disagevoli del repertorio e il suo Otello è vocalmente un personaggio equilibrato e, nella prestazione vocale, più che positivo. Certo, lo stimato artista è un tenore lirico-spinto e non davvero una corda di drammatico: lo si avverte dall’appoggio vigile sui centri, dalla costante attenzione nel non inspessirli per non creare disequilibri. L’«Esultate!» iniziale è forse il momento che meno rende ragione di una buona prova che però esaurisce tutte o quasi le sue fiches nell’attenzione alla prestazione vocale. Nel gioco scenico non è d’altronde coadiuvato dal baritono Dimitri Platanias. Il suo Jago è vocalmente rifinito e senza sbavature e tuttavia davvero poco vilain, quasi mai davvero insinuante e mefistofelico. Francesco Marsiglia è un Cassio ideale per voce, figura, slancio. Davvero bravo. Come buona nel complesso la prova dei ruoli minori con una nota molto positiva per l’Emilia di Elisabetta Martorana. Carmela Remigio è professionista di rango, di grande valore soprattutto nel repertorio mozartiano. La sensazione dominante nella sua Desdemona, di bell’aspetto e sicura grazia scenica, è che manchi la caratteristica dominante del ruolo, quel velluto nella voce, quella morbidezza brunita nella prima ottava che ne fa una donna appassionata e sensuale, vittima enigmatica. Inevitabilmente aspra nelle scene più concitate, sussurrante all’eccesso nell’Ave Maria, ha avuto il suo momento migliore nella Canzone del salice, ma globalmente la sua vocalità è ancora distante dalle prove dagli illustri precedenti alla Fenice (Renata Tebaldi e Rosanna Carteri, Marcella Pobbe, Maria Chiara, Katia Ricciarelli e nel 2002 Dimitra Theodossiou).
© Riproduzione riservata