Opera • Il Teatro Comunale ha inaugurato la stagione con un nuovo allestimento dell’opera verdiana: poco vivida la concertazione di Roberto Abbado e pretestuoso lo spettacolo di Robert Wilson, ma interessante la prova di Jennifer Larmore
di Francesco Lora
IL Teatro Comunale di Bologna compie 250 anni, ma inaugura all’insegna della sobrietà: alla prima della sette recite del Macbeth di Giuseppe Verdi (5-12 febbraio) non si vede un fiore, il cordiale supera il mondano e il rinfresco nel foyer è blindato. Circola di mano in mano un comunicato dei lavoratori del teatro, preoccupati per gli ultimi nefasti provvedimenti del Consiglio dei Ministri sulle fondazioni lirico-sinfoniche. E lo scoramento sembra pendere anche dalla bacchetta di Roberto Abbado: rispetto alla tradizione, egli slenta i tempi e ammollisce l’articolazione, sottraendo tensione alla frase musicale e nitidezza timbrica all’orchestra; lo squillo di ottoni gagliardi squarcia di tanto in tanto il flou sinfonico, ma questa è l’eccezione in un Macbeth poco vivido e poco interessato all’indagine descrittiva, narrativa e virtuosistica: un esempio è nel preludio alla “scena del sonnambulismo” (IV, iii-iv), dove l’orecchio cerca invano la misteriosa atmosfera notturna, l’angoscia dei presenti, l’allucinazione della protagonista e le mirabilie che il Verdi orchestratore distilla. Con gran piacere si ascolta la partitura nella sua integralità, e persino con un timido abbozzo di variazione vocale nella ripresa della cabaletta di Lady Macbeth. E si sbuffa davanti a due scelte infelici, forse non ideate dal direttore ma da lui tollerate. La prima si ha quando, nella sortita della Lady, la lettura della lettera avviene fuori scena, per mezzo di una voce attoriale amplificata: ciò non solo ruba alla cantante un tassello della performance e un singolare pezzo di bravura declamatoria, ma anche toglie vigore al brusco passaggio dal parlato al recitativo, appieno efficace solo se eseguito da un’unica interprete. La seconda scelta infelice si ha – eseguendosi qui il rifacimento parigino dell’opera – nella soppressione del Ballo nell’atto III, pagina strumentale tra le più originali e ispirate di Verdi, in linea con una consuetudine ormai obsoleta (negli ultimi allestimenti italiani esso è stato di norma eseguito, quand’anche realizzato in forma solo pantomimica; non così, a dire il vero, nell’allestimento genovese del gennaio scorso: ma il fatto dà conto di quale avaro omaggio si stia porgendo al più importante operista italiano nel bicentenario della sua nascita).
Gli sbilanciamenti nella lettura musicale di Abbado hanno un corrispondente in quella teatrale di Robert Wilson, titolare di regia, scene, ideazione luci e coreografia, e affiancato da Jacques Reynaud per i costumi. In questo nuovo allestimento il palcoscenico non ha costruzioni: gli spazi sono immersi nel buio, invasi dalla nebbia, sfumati nella dissolvenza, chiusi da fondali monocromatici, talora illuminati con violenza e freddezza da tubi al neon. In abiti che rievocano un Medioevo idealizzato e orientaleggiante, gli attori hanno la solita consegna wilsoniana del minimo gestuale: tutto deve sembrare immobile, meccanico, simbolico, bidimensionale; e non importa se questa concezione passepartout, applicabile cioè al Macbeth come a qualunque altro titolo d’opera, poco ha da spartire col pragmatismo del teatro verdiano e del mestiere del cantante. Né si può impugnare l’argomento dell’innovazione: a ogni concertato, ecco i solisti schierati in fila al proscenio e il coro alle loro spalle, come negli spettacoli di tradizione che la critica odierna taccia di vetustà.
Almeno una sorpresa, in così scarso nerbo, viene invece dalla compagnia di canto. Jennifer Larmore, ormai dismessi i panni della belcantista händeliana o rossiniana, si è data a parti di diverso e più drammatico stile canoro ed espressivo, quali la Kostelnička Buryjovka nella Jenůfa di Janáček e la Contessa Geschwitz nella Lulu di Berg. Ed eccola allora portare a Bologna la sua Lady Macbeth, la quale ha innanzitutto il vanto – fra tanta aurea mediocritas – di prestarsi ad ampia e frastagliata discussione, fra amici melomani e in sede di recensione. In questo nuovo cimento, la voce mediosopranile della Larmore conserva timbro inconfondibile, compresi i tratti aspri che mai l’hanno premiata e che tuttavia ben si addicono alla Lady; il volume è meno imponente di quanto si vorrebbe, ma il suono è ben proiettato lungo tutta la gamma; il registro grave, assai sollecitato nel Macbeth, risuona in petto con torva rotondità; il registro acuto, che nella Larmore non potrebbe essere schiettamente sopranile, si riempie però di una tensione sonora e nervosa che diventa al tempo stesso drammatica, e davvero sorprendente è la facilità di ascesa al Re bemolle sopracuto alla fine della “scena del sonnambulismo”; la pronuncia, venata da sgradevoli inflessioni yankee, è nondimeno controbilanciata da un accento teatrale pieno d’incisività, e l’acume dell’interprete è fuori discussione: si ascolti a tal proposito la “scena del brindisi” (II, v-vi), dove la Larmore non solo sgrana sprezzante e a piena voce i passaggi d’agilità (che hanno tenuto lontane da Lady Macbeth alcune interpreti altrimenti interessate alla parte, in primis Raina Kabaivanska), ma anche sa differenziare la prima intonazione, altera e sicura, dalla seconda, conseguente all’apparizione del fantasma di Banco e dunque caricata di rabbioso turbamento (mentre l’accompagnamento di Abbado si mantiene indifferente).
Intorno alla Larmore sta più la correttezza che il carisma: il Macbeth di Dario Solari, giovanile ed esitante, il Banco di Riccardo Zanellato, signorile e rassegnato, come pure il Macduff di Roberto De Biasio, lirico ed elegante, fanno mostra di buona tecnica se non di fasto vocale; nella loro stilizzata interpretazione sembrano accomunati, e persino intimiditi, dalla reverenza a questo Macbeth fatto soffuso da concertatore e regista. Gli applausi del pubblico bolognese, speziati da pochi eroici dissensi all’indirizzo di Wilson, vanno infine condivisi col coro del teatro felsineo, preparato da Andrea Faidutti: nel suo toccante «Patria oppressa!» brilla il sano orgoglio di un’ottima compagine.