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Recensione • Alla direzione della Filarmonica della Scala con un programma che ha puntato alle sinfonie di opere meno note del compositore
di Luca Chierici
Non era certo necessario un concerto celebrativo come quello che la Filarmonica della Scala ha organizzato lunedì scorso per ricordarci quale sia il rapporto profondo che esiste tra Riccardo Chailly e la musica di Verdi, un rapporto coltivato fin dai tempi dei Masnadieri scaligeri del ’78. Né poteva diminuire il valore della serata l’assenza, pur rimpianta, del bravissimo José Calleja che avrebbe dovuto dar voce a una serie di arie verdiane “alternative” che non si ricordavano più dai tempi di una famosa incisione di Pavarotti e Abbado risalente proprio agli anni del debutto di Chailly alla Scala. Il programma era stato dunque leggermente modificato e ricordava da vicino l’impaginato di un cd fresco di stampa appena inciso dal direttore milanese e dalla stessa Filarmonica. Un programma che puntava sul Verdi meno noto, quello delle sinfonie di opere considerate “minori” o degli inserti scritti per rispettare le convenzioni del teatro d’opera francese, inflessibili per quanto riguardava la presenza di ballabili anche nel contesto di melodrammi di durata cospicua come Les Vêpres siciliennes. Chailly aveva recentemente ricordato come gli esempi di Jerusalem e dei Vêpres erano particolarmente importanti perché si riferivano a ballabili scritti contestualmente alla presentazione dell’opera e non aggiunti successivamente come avvenne ad esempio nel caso di Macbeth e Otello. Il direttore milanese non esegue queste musiche come se si trattasse di rarità da introdurre accademicamente a un pubblico di specialisti, bensì con la partecipazione di chi crede che tutto sommato non esista un Verdi “minore” bensì un genio della musica che lascia la sua impronta inconfondibile in tutto ciò che scrive. Ed ecco che sono stati messi in risalto i particolari virtuosistici dell’orchestrazione nei ballabili inseriti nell’atto terzo di Jerusalem (forse il numero più interessante dell’intera serata), operazione possibile anche e soprattutto grazie alla bravura delle parti principali di un’orchestra che era in forma smagliante. Unisoni tra archi e fiati nell’allegro in 6/8 del Pas de quatre, il temibile assolo del flauto nel Pas de deux, l’ammaliante dialogo tra arpa, oboe, flauto e clarinetto nel Pas solo sembrano non rappresentare ostacoli per una orchestra che trova proprio in queste difficoltà il terreno elettivo per incanalare un entusiasmo palpabile per la musica verdiana.
L’attitudine di Chailly a scavare nel dettaglio dei testi degli autori prediletti, unita alla sua preparazione musicale e più in genere culturale, a un gesto di sicura efficacia e allo stesso tempo spontaneo e felice, alla visibile partecipazione viscerale nel momento dell’esecuzione, portano a dei risultati straordinari che raramente si ascoltano nei direttori delle generazioni successive. Non è questione di speciale sintonia verdiana (sarebbe sufficiente ad esempio considerare quanto Chailly ha fatto di recente nei confronti di un musicista come Mendelssohn) ma di un metodo di studio e di lavoro che conduce a una meta sempre condivisibile. Un traguardo che oggi acquista ancora più fascino grazie ai risultati di una ricerca timbrica e dei rapporti di sonorità all’interno del teatro o della sala da concerto che potrebbero ricordare i raggiungimenti di un mago dei suoni quale fu Herbert von Karajan. Va da sé che Chailly e l’orchestra abbiano regalato al pubblico esecuzioni entusiasmanti di evergreen come le sinfonie di Nabucco, dei Vespri e della Forza del destino (quest’ultima concessa come bis) e della meno nota Giovanna d’Arco, spingendo il loggione a grida di “Viva Verdi” che con il loro richiamo più o meno volontario alla nostra stagione risorgimentale suonavano particolarmente coinvolgenti e rassicuranti nel drammatico contesto di una giornata che era stata sconvolta dall’annuncio destabilizzante proveniente dal Vaticano.
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