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Opera • Il compositore russo denuncia la crisi profonda, spirituale, dell’uomo contemporaneo attraverso il romanzo di Bulgakov. «Non sono contrario ai progressi della scienza o della tecnologia. Ma credo che l’uomo sia spesso colto dalla tentazione di sentirsi dio e di manipolare la realtà. Lo stalinismo fu uno degli esempi più terribili di questa ambizione di creare un uomo e un mondo nuovi»
di Luciana Galliano
[Egrave]andata in scena, dal 16 al 27 marzo al Teatro alla Scala, l’opera Cuore di cane del compositore russo Alexander Raskatov, in due atti, 16 scene e un epilogo, su libretto di Cesare Massonis basato sull’omonimo racconto di Michail Bulgakov, con le scene di Michael Levine e la regia di Simon McBurney, direzione del m° Martyn Brabbins.
Come in altre opere del secolo, prima fra tutte Der Prinz von Homburg di Henze dove si tratta di una scimmia trasportata nel mondo degli umani, anche qui un animale è fatto protagonista di vicende di cui, col suo comportamento ibrido, decanta la tragicomica insensatezza. Un cane, salvato da una morte di stenti da un barocco chirurgo sovietico che gli trapianta ipofisi e testicoli di un morto in una rissa, perde ogni affettuosa e scodinzolante allegria canina e si trasforma in un impresentabile uomo animalesco, caricatura dell’Uomo Nuovo del regime sovietico: ubriacone, canta a sproposito trite canzonacce, pretende documenti di identità ma combina guai inseguendo gatti, usa violenza alle donne e il ricatto, la delazione e il sopruso per i suoi incontrollabili impulsi…. finché il povero Filipp Filippovič non gli ritrapianta l’ipofisi. Il cane torna cane e tutto dovrebbe tornare normale, se non si fosse ormai esaurientemente rivelata la natura canina, servile e miope del genere umano – perlomeno e di certo nell’ambiente di Bulgakov, che scrive il racconto nel 1925.
L’opera è nata dal cuore russo di Raskatov, che ha pensato in musica la fantastica e grottesca vicenda progettandone la realizzazione con il regista, grazie anche alla felice commissione De Nederlandse Opera Amsterdam. L’allestimento italiano è stato complesso, con la rinuncia per malattia di Valerij Gergiev (già direttore degli allestimenti di Amsterdam e Londra) e la sua sostituzione con il versatile direttore londinese Martyn Brabbit. E poi con la clamorosa cancellazione della prima, che avrebbe dovuto svolgersi il 13 marzo; si sussurra di problemi tecniche con le scene, e addirittura di incidenti elettrici… Ma per fortuna in qualche modo la seconda del 16 è diventata prima e abbiamo potuto vedere e sentire questo intrigante Cuore di cane.
Effettivamente le scene sono complesse, perché pur essendo l’impianto sostanzialmente lo stesso (ma la quinta di fondo ad un certo punto del secondo atto si inclina, enorme e soverchiante), una inattesa serie di eventi lo anima, le scene si muovono come disegni su carta, sul fondo campeggiano grandi proiezioni (di Finn Ross) che aprono lo sguardo su inquietanti folle dell’epoca. I concitati movimenti delle luci e dei tanti personaggi (il capo del Comitato di Edificio! e tutti gli altri miseri potenti, fra cui un Capo-Lenin) ruotano intorno al cane, che sia il pupazzo articolato come un burattino bunraku da quattro marionettisti (del Blind Summit Theatre) meticolosamente e in modo paurosamente realistico, che sia il volgare Poligraf Poligrafovič Šarikov, che dopo l’operazione nasce ovviamente nudo in scena – scatenando l’indignazione di alcune signore ingioiellate. L’acqua scorre, il fuoco avvampa… Le tante figure emergono vividamente anche grazie ad un dettagliato modo della recitazione, a metà fra il vaudeville e un compassato tono militare. Forse l’ironia di Bulgakov sulla carta è più sottile di quella in scena ed alcuni episodi – come la scena 5, di fornicazioni domestiche – perdono la loro necessità, ma lo spettacolo è bellissimo.
La musica di Raskatov segue sino alla pedanteria l’arguto libretto, e Raskatov afferma nel bel catalogo (con una intensa testimonianza del regista sull’era sovietica e sulla comune passione per Bulgakov) di voler “pensare l’opera in quanto lavoro teatrale (ma non creare un saggio culturologico sull’opera).” Il che, tradotto in musica, significa che il lavoro è rutilante di effetti vocali, invenzioni parodistiche (la musica “rivoluzionaria” russa, la banda, il coro da chiesa) e contrasti strumentali su e giù per i registri e le intonazioni, in un eclettismo che sembra concentrarsi però, soprattutto nel primo atto, in un ripetitivo scoppiettare di sillabe – anche se alcuni particolari, come la realizzazione della doppia voce del cane, bella/brutta, è resa con molta efficacia e musicalità (da Andrew Watts e Elena Vassilieva). Nel secondo atto tutto è più mobile, e i molti registri musicali conferiscono movimento alle paradossali circostanze. Siamo, più o meno felicemente, in una sorta di musical particolarmente colto che “coglie l’aspetto esteriore, cioè il dinamismo fisico” della vicenda, come dice Angelo Foletto nella sua recensione su La Repubblica domenica 24 marzo.
L’opera infine però è un successo per quello che è, una girandola di creatività ed effetti, grazie soprattutto alla bravura degli interpreti. L’ensemble vocale “Il Canto di Orfeo” è inappuntabile nelle parti e nei movimenti del coro, sino al latrato finale che, smentendo il lieto fine di Bulgakov, constata il moltiplicarsi dei Šarikov, “pronti a divorarci”. La precisa e intelligente direzione di Martyn Brabbins illumina le punte di bizzarria e creatività della partitura, e i solisti Paulo Szot nei panni di Flipp Filippovič, Peter Hoare come Šarikov, Ville Rusanen come Assistente, Nancy Lundy come Zina la cameriera, Graeme Danby portiere, Grande Capo e venditore di giornali affontano le loro parti con precisione e generosità. Tutti bravi.
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