Viaggi musicali • Dai viali ai caffè, dalla Senna alla barrière d’Enfer, un percorso intriso di suggestioni sulle tracce dell’opera pucciniana e dei suoi antecedenti storici, artistici e letterari
di Elena Filini
B aciarsi per strada non è reato. Baciarsi a Parigi è una forma d’arte: inaugurata dalla più celebre foto di Robert Doisneau (Le Baiser de l’Hôtel de Ville), masticata nelle canzoni di Charles Trenet e santificata dal recentissimo Paris in love di Eloisa James.
Uno dei baci più celebri del palcoscenico viene scambiato a Parigi, una notte di Natale di metà Ottocento. Siamo al Café Momus e sotto la neve (incongruenza sulla quale molto poi sorrisero Puccini, Illica e Giacosa), le intemperanze di Musetta vengono sedate dal quel bacio, che scioglie impertinenza e calcoli. Se l’amore è l’essenza di una città e quella città è Parigi, l’opera che meglio la racconta è La bohème. Sono indizi minuti, scorci e squarci di strade, di palazzi, di acque, caffè e interni di fumoirs. E un viaggio a Parigi, sulle tracce del capolavoro pucciniano, trasforma la partitura in una guida del cuore, per inseguire, assieme ai luoghi e alla musica, le emozioni di quell’irripetibile «età d’inganni ed utopie». Del resto è proprio in un’umida soffitta nei pressi di Notre Dame che Henri Murger (1822-1861) tenne il diario più celebre di Francia, quello in cui raccontava la quotidianità di un mondo di studenti e sartine, diventato prima il feuilleton più ricercato degli anni Quaranta su Le Corsaire Satan e infine – con il titolo Scènes de la vie de bohème – un best seller.
Stazione di partenza: i tetti di Parigi. Dall’alto, la città sembra un po’ più vicina al cielo ed è proprio in una soffitta, con vetrate che lasciano scoperto il miracolo della Senna e dei viali, che si apre La bohème. Il set è il Quartiere latino, il ventre di Parigi venduto oggi ai turisti tra souvenirs e piccole truffe. Il punto più basso della città, dove nel Seicento una sotto-élite, formata da studenti dell’Università di Praga, protestanti ed ebrei dell’Est, si trasferì per poter praticare la libertà di culto e di pensiero. Erano boemi, vennero chiamati bohémiens. Presto lasciarono la Sorbonne, una delle più antiche università d’Europa, per trovare nuovi centri di sapere. I caffè. I bistrots. E proprio nel Quartiere Latino prospera quell’istituzione destinata a diventare il vero pensatoio d’Europa: il Café Procope, istituito in Rue de la Comédie (oggi Rue de l’Ancienne Comédie) nel 1686 dal catanese Francesco Procopio Coltelli. Ai nostri giorni è ancora lì, col cappello che Napoleone Bonaparte lasciò in pegno all’ingresso, con le specchiere e le boiseries, dove le foto di fine secolo ritraggono un Verlaine assopito per l’assenzio, dove Chopin e George Sand presero il posto di Marat e Robespierre o dei Philosophes. Non è solo atmosfera. Lì c’è un pezzo di storia della libertà europea, di quella politica, dei costumi, dell’arte.
Ma i bohémiens dovettero a un certo punto considerare il luogo troppo ufficiale, se pensarono di rifugiarsi anche in luoghi lontani come la Butte. È a Montmartre, infatti, che l’universo maschile incontra l’altra metà del cielo. Nei cabaret dove nasce la chanson canaille, quella di Aristide Bruant e della malavita, ritratta nei quadri di Henry Toulouse-Lautrec. È lì che si conoscono donne come Musetta. Sono lorettes, filles de joie, stazionano di fronte a Notre Dame de Lorette, tra Pigalle e Montmartre, vengono dal proletariato e vanno ad infittire la povertà ed il degrado della metropoli industriale, destinate spesso a morire di tubercolosi. Sulla collina sono rimaste le insegne del Lapin Agile e dello Chat noir. Cabarets o più spesso caveaux artistiques, cantine dove alla mescita si abbinava una qualche forma di rivista. Sono i luoghi che ispirano i quadri di Maurice Utrillo e di sua madre Suzanne Valadon, che sulla Butte vissero; a ricordarli, quel sapore inconfondibile che ancora si respira al Café Le Progrès.
La borghesia, quella degli irreprensibili signor Benoît o Giorgio Germont, si incanaglisce altrove. Nelle case di piacere e ai balli estivi nei giardini di Parigi, il più famoso dei quali è le Bal Mabile, ritratto nel quadro di Jean Béraud. Qui il signor Benoît ha fatto certi incontri peccaminosi con donne procaci che gli vengono subito ricordati dai giovani bohémiens nell’atto primo, nell’ingegnoso tentativo di salvarsi dall’affitto arretrato. È il peccato d’amore a perdere il vecchio («ma robusto», tiene a precisare nel Quintetto del Quadro I) padrone di casa.
E deve trovarsi davvero poco distante dalla Senna il Caffè Momus. Oggi come nel Natale di metà Ottocento, infatti, all’ombra di Notre Dame va in scena il teatro del più grande mercato librario del mondo. E sarà stato certo da un bouquiniste, il tradizionale venditore di libri e stampe antiche che ogni giorno ancora toglie il lucchetto al suo banco, che Colline avrà acquistato la «grammatica runica». La geografia dell’opera pucciniana prosegue poi a Sud, alla barrière d’Enfer, dove Rodolfo ha raggiunto Marcello e Musetta per sottrarsi ai continui litigi con Mimì. È la cinta daziaria della città, commissionata all’architetto Claude-Nicolas Ledoux nel 1784 per controllare gli ingressi a Parigi nell’ultimo tentativo di contenimento della violenza da parte dell’ancien régime. La zona Sud era controllata dalla barrière d’Enfer detta anche d’Orléans, ma chiamata così perché affacciava sulla Place d’Enfer (oggi Place Denfert-Rochereau). Da qui, al segnale del doganiere, nella livida alba di gennaio appaiono gli spazzini che vengono da Gentilly, nell’Île de France, e le lattaie dirette a Saint Michel.
Non si lasceranno ancora e non qui, Mimì e Rodolfo. Dovranno ritornare a quella soffitta vicino al Boulevard Saint-Germain, teatro di amori brevi, densi, specchio del meglio e del peggio della giovinezza. Del resto sarà proprio la morte a creare l’icona maudite. Assieme all’assenzio, la fata verde, quella strana bevanda al gusto di anice che ha ispirato gli sguardi perduti delle donne di Picasso (La buveuse d’absinthe, 1901) e Degas (Dans un café o L’absinthe, 1876). Ci parlano ancora dalla Rive Gauche, alla Gare d’Orsay.
© Riproduzione riservata