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Opera • Una cornice di grande fascino per la ripresa del titolo verdiano nella regia di Francesco Micheli, protagonista soggiogante Gregory Kunde, con la versatile e sostanziosa direzione di Myung-Whun Chung
di Elena Filini
[IL] cielo stellato di Venezia guarda distante l’amore, l’odio, la vendetta e l’ossessione che si consumano tra le stanze dei Dogi per il ritorno di Otello a Palazzo Ducale. Evento glam mercoledì 10 luglio, che ha visto con un importante sforzo logistico riaperte le porte della corte dogale alla lirica. Il Gran Teatro La Fenice di Venezia trasloca in esterno, dunque, riproponendo la locandina dello scorso novembre in un set di singolare fascino. Sotto il profilo evocativo non si poteva desiderare di meglio. Rimane la questione acustica, che senza dubbio non premia il pubblico delle retrovie.
La scena, a impatto zero (neppure un chiodo piantato per l’allestimento), alterna i piani: l’azione si svolge a volte sopra passerelle per l’acqua alta, funzionali a una maggiore visibilità e molto lagunari. Della regia di Francesco Micheli, proposta con alcune inevitabili semplificazioni nella versione en plein air, l’aspetto di più felice impatto sono le videoproiezioni. Audaci forse, ma evocative a tingere Palazzo Ducale del bestiario dello zodiaco e popolare la notte veneziana di mostri interiori. Odio, gelosia, vendetta, invidia abitano non solo le stanze, ma anche la facciata del regno dogale. Rifulgono le masse, che Micheli sa ben governare.Il suo mondo è un mix moderno di suggestioni letterarie e televisione, cinema di qualità e cine-spazzatura che può affascinare il pubblico giovane e rendere perplesso quello più tradizionalista. La scelta più personale è quella del finale, con la trasfigurazione di Otello e Desdemona che insieme si incamminano nella notte. Boitiana forse, ma un po’ lontana dalla fredda logica della stanze dogali.
Sotto il profilo musicale le eccellenze della serata sono Gregory Kunde e Myung-Whun Chung. Quando Kunde esce dalla scala dei Giganti, soggioga. La partita, è evidente, si gioca con l’illustre precedente, Mario Del Monaco che nel 1960 fu per la prima volta qui un acclamatissimo Moro. Kunde è un cantante tecnicamente straordinario, vanta una voce totalmente integra e un apprendistato belcantistico che lo rendono dominatore assoluto del mezzo. Eppure è un Otello vivo, palpitante. Partito coerentemente da maiuscole prove nell’omologo rossiniano, il tenore statunitense qui le matura in un personaggio non retorico e stentoreo, tuttavia profondo conoscitore della parola scenica. Kunde è un cantante straordinario; ha una voce brunita, di timbro caldissimo ma svettante in acuto. Mai una forzatura, tutto risolto con risolutissima morbidezza. Un Otello uomo, non divo, un cantante magnifico e generoso, al quale l’aperto non ha tolto potenza ed armonici (se si eccettua qualche sfocatura nella prima ottava durante il primo atto). Per il Moro non si sarebbe potuto desiderare di meglio.
Myung-Whun Chung conduce, con gesti misuratissimi e ieratici, un’orchestra in piena forma, ottenendo un tappeto sonoro di straordinario spessore pur nell’attenzione costante a non impensierire più di tanto il cast. E quando sfoga è un clangore di colori. Versatile, sempre mobile, verdiano perché sostanzioso ma mai kitsch, ha regalato un Otello memorabile. Sulla Desdemona di Carmela Remigio si ripropongono le perplessità delle recite invernali, accresciute dalla soluzione all’aperto: il soprano italiano è un’artista di elevato livello professionale, musicalissima e vocalmente consapevole del proprio mezzo. La polpa della voce però difficilmente può farne un soprano verdiano, soprattutto nei centri. Anche le sue bellissime mezzevoci, i filati con cui incanta nel repertorio mozartiano, risultano qui impraticabili. Il ruolo di Jago rappresenta una tentazione cui è davvero difficile resistere; tuttavia la parte richiede un volume, una lama di voce che la rende impervia vocalmente. Lucio Gallo, che è stato fra gli straordinari baritoni mozartiani e rossiniani della sua generazione, nonostante le molte prove verdiane di quest’ultimo quinquennio (o forse proprio in ragione di esse) è uno Jago a tratti affaticato, con qualche problema d’intonazione. Peccato, perché l’aplomb e la rifinitura musicale sono sempre di rango. Si conferma la buona prova di Francesco Marsiglia quale Cassio, tenor giovine di grande facilità vocale, appena impensierito dalla soluzione all’aperto. Particolarmente felice la prova del coro del Teatro la Fenice, istruito con grandissima perizia da Marino Moretti. Forte emozione nel silenzio irreale della sera, quando la Marangona (la campana più grande del cortile di San Marco) suona la mezzanotte.
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