Suono asciutto, denso e materico per l’opera di Debussy concertata da Daniele Gatti al Maggio Musicale. Astrazione nell’allestimento firmato da Daniele Abbado. Eccellenza di voci tutte italiane: Bacelli, Fanale, Frontali, Scandiuzzi, Ganassi e Frigato
di Francesco Lora
ECCO IL PIÙ PREZIOSO SPETTACOLO TEATRALE DEL MAGGIO MUSICALE FIORENTINO 2015: Pelléas et Mélisande di Claude Debussy, quattro recite dal 18 al 25 giugno nell’Opera di Firenze. Lettura musicale posta in mani nuove, sicure, esperte; prevedibile nell’indirizzo poetica e nella chiarezza d’idee del concertatore; non per questo meno sapida al discernimento dell’ascoltatore. Le sfumature che fanno entrare un timbro nell’altro, e le frasi che svaporano in delicatezze agogiche e dinamiche, stanno lì sottintese in partitura; e la bacchetta le onora. Ma Daniele Gatti si discosta dalla tradizione edonistica fatta di atmosfere rarefatte intorno ai personaggi. In tenace intesa con l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, egli sollecita invece un suono asciutto, denso e materico, ossia un’evocazione del tormentato profondo del dramma. La linea melodica che altrove accarezza, qui incide, graffia, supplica, è tenebra fitta, è luce agognata. È in tal modo posta in rilievo l’influenza di Richard Wagner sulla grammatica di Debussy: rare volte si è meglio colta nel Pelléas la velleità di un secondo Tristan und Isolde. Ed è in tal modo resa necessaria una compagnia di canto formata con un criterio senza precedenti.
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Si sorvola sul possesso che i cantanti hanno della prosodia francese, qui corretto ma non erudito. Il dato di fatto è un altro, e in vista di una diversa priorità: sono tutte voci italiane, non solo per l’anagrafe ma anche per la scuola di canto, per lo sfarzo di timbri, per l’ampiezza di risonanza, per l’immediatezza di comunicativa; tutti ingredienti che la ricetta di Gatti esige per coerenza, e che gli interpreti di area francofona non vantano a pari segno. Si perde qualche nasale o e muta, si acquista in arte e forza del canto, è magnificenza pura da un nome all’altro. Come Mélisande, Monica Bacelli è il solito capolavoro di aristocrazia d’emissione, di sontuosità di armonici, di sottigliezza espressiva nel tenere tutte insieme, in una stessa arcata, le note della fragilità e dell’inconsapevolezza, dell’inganno e dell’enigmatico. Accanto alla sua maturità trova posto il Pelléas di Paolo Fanale: voce non ibrida tra il tenore e il baritono, secondo l’uso, bensì schiettamente tenorile, ardente e giovane e radiosa, fascinosa nel denotare un’ultima scintilla di Romanticismo.
Conosciuto a oltranza per i suoi vilains donizettiani, belliniani e verdiani, Roberto Frontali passa con disinvoltura al loro tardo cugino Golaud; di più: non si ricordava in lui tanta continuità di legato, facilità di smorzatura, varietà di risorse espressive. Si sconfina nel prodigio naturale con Roberto Scandiuzzi: tutto il personaggio di Arkel – come ogni altro – potrebbe essere costruito già al solo aprir bocca, con la monumentale e morbidissima cavata di questo erede di Cesare Siepi. Non meno favolosa è Sonia Ganassi come Geneviève: mezzosoprano già a proprio agio in tessiture sopranili, ora ella scende a quelle di contralto con il velluto dello stile e il bronzo dei mezzi, cantante superba in personaggio contegnoso. Né si potrebbe immaginare un Yniold più compiuto di quello impersonato da Silvia Frigato: se la corporatura ha piccolezza davvero infantile, e se il canto ne prosegue vivacità e spaventi, la musicalità è però adulta e sopraffina nel rifuggire caricatura e calligrafia. Qualità ragguardevole anche al margine della locandina, dove Andrea Mastroni tiene le parti del Pastore e del Medico.
La regìa di Daniele Abbado e le scene e le luci di Giovanni Carluccio contengono il dramma in un mondo spoglio di arredi e radente l’astrazione, mentre i costumi, modello preclaro di taglio, volumi e ricaduta sui corpi, si devono a Francesca Sartori (nomen omen). L’azione pende inclinata sopra o attraverso un doppio ovale, che si scompone in settori a delimitare i diversi ambienti; e però è costante la visione di un occhio, una bocca, un passaggio al termine del quale filtrano bagliori dipinti. La didascalia non è contraddetta, ma il gesto è ridotto all’indispensabile e cede terreno alla parola: parola che, nel testo di Maurice Maeterlinck, spiazza e mai risolve, spesso lasciando che alla domanda cruciale di un personaggio l’altro risponda cambiando argomento. E le rare licenze rimangono alla mente, come quando Golaud si accanisce su Mélisande, nomina Assalonne e tuttavia non la strattona tenendola per i capelli: con le mani le chiude invece gli occhi, sbarrando il cammino alla loro sete di luce.
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