Con la direzione musicale di Semyon Bychkov e la regìa di Claus Guth va in scena la produzione già presentata a Barcellona e Zurigo: l’ambientazione è quella di un sanatorio tedesco
di Alberto Bosco foto © Javier del Real
SOTTO LA DIREZIONE DI SEMYON BYCHKOV e con un cast di cantanti wagneriani di prim’ordine, ha fatto la sua ricomparsa al Teatro Real di Madrid il Parsifal, ambientato in un sanatorio tedesco nel periodo del primo dopoguerra, che il regista tedesco Claus Guth aveva già presentato cinque anni fa sulle scene di Barcellona e Zurigo. Si è trattato su tutti i fronti di uno spettacolo di altissima qualità, accolto con grande calore dal pubblico madrileno. In primo luogo il merito del successo va attribuito al lavoro di concertazione di Bychkov, notoriamente uno dei più massimi direttori d’orchestra viventi, e in particolare nel repertorio tedesco tardo ottocentesco: che diriga Brahms o Wagner, Bychkov riesce sempre ad affrontare le musiche che dirige dal di dentro, senza puntare sulla patina sonora o su effetti esteriori, ma porgendo l’orecchio alle raffinatezze armoniche, alle piccole pieghe in cui la musica si infratta e al tempo stesso al senso complessivo del discorso, realizzando così l’approccio ideale per questo repertorio, in cui le divagazioni tardoromantiche non sono ancora deflagrate e il senso formale riesce ancora a mantenere organico il decorso della musica.
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Certo nel Parsifal, e in Wagner in genere, la tendenza a stirare il tempo musicale, a sospendere l’incedere consueto della forma e ingigantire certi dettagli è fortissima, e in questo sta appunto la sua modernità, ma le sue idee musicali rimangono sempre ben definite e l’alternanza, il gioco dialettico, tra i vari momenti è sempre presente. E questo Bychkov cura con grande bravura, levigando i fraseggi, dosando le dinamiche e gli impasti timbrici in modo da creare un flusso continuo di musica, una musica romanticamente capace di cavalcare ogni sentimento, anche il più torbido, senza travolgere il senso del canto o la saldezza dei temi.
La regìa di Guth, invece, ha del tutto eliminato questo lato romantico e ottocentesco di Wagner, esaltando i tratti anticipatori di correnti novecentesche come il simbolismo e l’espressionismo, certamente presenti nel Parsifal. Facendo piazza pulita della ritualità e del simbolismo religioso, la scelta ha avuto il merito di rendere più teatrale un’opera che è spesso resa con una fissità da sacra rappresentazione. La trama viene dunque calata in un momento storico e drammatizzata: si intuisce da un antefatto mostrato durante il preludio che Amfortas e Klingsor sono entrambi figli di Titurel, o che addirittura siano due anime della stessa persona (il second’atto si svolge nelle stesse sale degli altri due): Klingsor che si ribella al padre sarebbe ciò che Amfortas, insofferente e inadatto nel ruolo del successore, vorrebbe essere. Per questo quando, dopo la morte del vecchio padre, è Parsifal a condurre la celebrazione del rito, i due fratelli nemici si appartano e si riconciliano, a simboleggiare la soluzione di un dissidio interiore. Questa interpretazione psicanalitica del dramma di Amfortas non disturba più di tanto, anzi si adatta al libretto misticheggiante e onirico del Parsifal, e alle fluttuanti e continue modulazioni armoniche della musica. Per questo una delle idee più azzeccate di questa regia è quella della scena che ruota continuamente, spingendo i personaggi a passare di continuo in vari ambienti con lo stesso effetto surreale che ognuno di noi prova nei propri sogni.
Dove, al contrario, la regia sembra prevaricare è nell’intento di accentuare gli aspetti negativi ed espressionistici dell’opera. In primo luogo, la trovata di trasformare la vicenda dell’eroe puro e inconsapevole che scopre la sofferenza altrui, vince la tentazione del peccato e riporta un messaggio di redenzione e speranza, in una metafora di quello che avvenne dopo la prima guerra mondiale, dove reduci disillusi e spaesati aspettano l’arrivo dell’uomo forte che li guidi, non sta in piedi né storicamente (non risulta che i vari duci aizzassero le loro folle oceaniche con parole di perdono e compassione), né, che è peggio, musicalmente: dove sarebbero gli echi sinistri e minacciosi nei temi conduttori che rappresentano appunto l’aspirazione al bene, pensati da Wagner in opposizione ai tortuosi temi del peccato e della sofferenza? Si possono nutrire legittimi dubbi sullo spessore teatrale del personaggio di Parsifal e sull’effettiva autenticità dell’anelito alla redenzione dell’uomo Wagner, ma la musica qui non ha nulla di ambiguo. Il risultato fu una perdita di tensione drammaturgica nel terzo atto, che privato della sua ragion d’essere, finì per essere un po’ noioso.
In secondo luogo, l’accentuazione in scena di isterismi ed escandescenze (il sanatorio in cui si svolge l’intera vicenda è pieno di malati mentali), partiva certamente da una giusta intuizione (il canto di Kundry, ad esempio, è già espressionista), ma cozzava il più delle volte con la nobile solidità della musica: il dolore di Wagner non è mai disperazione, ma pathos sublimato dalla musica, ed è quel che fa di lui, nonostante tutto, un romantico, non un Berg, e nemmeno un Mahler. Così ci si sarebbe risparmiati volentieri la vista di un tarantolato agitarsi durante la Verwandlungsmusik del primo atto, o ci si chiede se gli eccessi con cui il pur bravo Detlef Roth ha reso il personaggio di Amfortas, che è in fondo l’alter ego di Wagner stesso, si debbano all’interprete o alle esigenze del regista. Apprezzabile, invece, l’idea di far muovere le fanciulle in fiore con i gesti stereotipati delle ballerine di musical anni Venti, trasformando queste insulse tentatrici in figure dell’immaginario.
Nell’ottimo cast, oltre al demoniaco Evgeny Nikitin nei panni di Klingsor, hanno convinto più di tutti Anja Kampe, che ha dominato mirabilmente l’impervia vocalità di Kundry, e Franz Josef Selig, il cui canto dagli accenti liederistici ha saputo rendere avvincenti i lunghi racconti di Gurnemanz
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