Spettacolo superbo al Teatro dell’Opera, con Abbado e Gilliam alla testa di maestranze e compagnia impegnate al massimo: spiccano Osborn, Sicilia, Abrahamyan, Ulivieri e Luongo
di Francesco Lora
QUALCHE VOLTA, DI QUALCHE SPETTACOLO, va detto in premessa: il Benvenuto Cellini di Hector Berlioz andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma, sei recite dal 24 marzo al 3 aprile, è una meraviglia da lasciare a bocca aperta il melomane più smaliziato. Lo è innanzitutto per l’allestimento scenico, che non è una novità assoluta: coprodotto, ha debuttato all’English National Opera di Londra nel 2014 ed è già stato ripreso al Nationale Opera di Amsterdam l’anno scorso. Il passaggio al teatro romano è tuttavia l’apice del percorso e la miglior prova del nove: su uno tra i palcoscenici istituzionalmente più importanti e, in rapporto, strutturalmente più angusti del mondo, nella stessa città del soggetto dell’opera, non v’è arditezza di lettura, parafrasi di spazi o virtuosismo scenografico che non dimostri il congegno perfetto.
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Regìa di Terry Gilliam, visionario quanto l’autore e coadiuvato da Leah Hausmann in regìa e coreografia, da Aaron Marsden nelle scene, da Katrina Lindsay nei costumi, da Paule Constable nelle luci e da Finn Ross nelle luci. Ciò che si offre alla vista e al pensiero è l’ipercinesia carnevalesca di un mondo alla rovescia: dove praticabile, fondale e proiezione si avvicendano e confondono; dove il costume si trasforma e scambia sui corpi; dove insieme giocano il cantante famoso, il corista divertito e l’artista circense; dove l’attore deve pensare tanto al lavoro su sé stesso quanto alla delirante macchina coreografica che lo circonda, lo trascina e lo trasfigura. Rare volte si sono viste controscene più sottili di quelle con serve e vicine di casa Balducci; ancor più di rado si è assistito a un coup de théâtre più imprevisto, totale e berliozianamente megalomane dell’irruzione in sala, a metà Ouverture, di un’intera compagnia di saltimbanchi mentre dalla cupola piovono coriandoli: un avviso per ciò che, senza riposo, seguirà fino all’ultimo minuto.
La compagnia di canto vince dunque su un triplo fronte: è illustre nei nomi, è ottima nella musica, non perde un colpo nel vortice teatrale, acrobatico e coreografico. Nella parte eponima, John Osborn conferma di essere l’epigono contemporaneo del suo creatore, il mitico Gilbert Duprez: timbro vivido e giovanile valorizzato dalla bontà d’emissione, volo facilissimo al registro acuto nonostante la ricca pasta, simpatia da vendere senza perdere il rigore delle stile francese. Nell’evidenza, lo seguono di un solo passo le due donne. Come Teresa, Mariangela Sicilia non ha attitudes da primadonna, ma la totale dedizione della musicista forbita, dell’attrice disinibita, della belcantista laureata in Rossini ma pronta a dimostrare versatilità: il risultato è sia la cattura del neofita con la forza dell’immedesimazione nel personaggio, sia l’ammirazione dell’intenditore per la misurata messa a punto di risorse. L’altra donna tiene la parte en travesti di Ascanio ed è il mezzosoprano Varduhi Abrahamyan; orecchi aperti, poiché sarà Malcom nella prossima Donna del lago al Rossini Opera Festival e poiché, dopo averla ascoltata più volte nel repertorio settecentesco, se ne apprezza già ora il rigoglio in lavori più tardi ed esigenti in fatto di peso vocale: nei recitativi come nei couplets il colore è lucido e sano, la risonanza adeguata e naturale, l’ornamentazione fluida e radiosa, il personaggio frizzante e raffinato.
Nicola Ulivieri, come Balducci, e Alessandro Luongo, come Fieramosca, mozzano il fiato per brillantezza nella recitazione; solo ripensando alla recita si realizza che nel canto nessuno doveva essergli preferito. Anziché cedere all’oleografia, e meno che mai nell’Urbe, Gilliam immagina un papa Clemente VII non rinascimentale e imporporato, ma esotico e inafferrabile come l’imperatore Altoum della Turandot: Marco Spotti lo impersona con agio, a dispetto di un canto mai stato troppo elegante. Di vaglia il comprimariato, che a fronte di un minor ruolo nell’azione e nella musica palesa alta cognizione delle pretese dell’opera e della complessità dello spettacolo: Matteo Falcier come Francesco, Graziano Dallavalle come Bernardino, Andrea Giovannini come Pompeo – ma qui v’è la statura del caratterista, sia nel personaggio sia nell’interprete: non del semplice comprimario – e Vladimir Reutov come Taverniere.
Il discorso musicale è tenuto saldamente in pugno da Roberto Abbado: tra i direttori italiani consacrati all’opera, egli si riconferma così uno dei più curiosi e trasversali, pronto a Rossini come a Donizetti, a Verdi come a Wagner, a Mozart come – infine – a questo Berlioz scabroso e insolente, dove in mancanza di una specializzazione specifica (Davis, Nelson, Gardiner) viene a contare la somma delle esperienze pregresse. Lavorando con Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera, il maestro dispone di compagini qualificate e tuttavia non pretende da loro la virtuosistica esibizione delle tante peculiarità strumentali e timbriche; non oro, argento e bronzo, esplosione e riverbero, come fusione pompier vorrebbe, bensì velluto e marmo, morbidezza nell’accompagnamento e assorbimento delle luci sonore. Una strada possibile, qui forse obbligata, in singolare e non per questo fastidiosa controtendenza rispetto all’estroversione registica.
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