Una riflessione rapsodica e parabolica che tocca varie tematiche, dalla vita musicale italiana e bolognese bolognese (ieri e oggi) a compositori quali Cage ed Ives. Cosa accade se la parola “anima” è sostituita dalla parola “mercato”?
di Giampiero Cane foto © Silvia Lelli e Roberto Masotti
Il 16 settembre sul supplemento milanese del Corriere della Sera si poteva leggere una notizia che diremmo proprio buffa che riguardava un’ottuagenaria proprietaria di una ditta nel settore dei raggi X, la quale sembra gestisse il lavoro a schiaffoni, vale a dire trattando gli operai come ragazzini molesti e disobbedienti che si possono raddrizzare solo coi metodi delle nonne di questa (forse) nonna. Non scrivo però di questa storia milanese con Nonna Papera impazzita che corre dietro a pseudo nipotini cinquantenni, in tuta da operaio e che magari per difendersi si nascondono sotto il tavolo di lavoro. Scrivo di un paese nel quale fattisi di velina i tabù collettivi, i comportamenti quotidiani non hanno guida alcuna, ragion per cui c’è chi interviene solo a seguito di ipotesi di reato. Contro gli insegnanti, i genitori stanno coi loro spermatozoi troppo cresciuti, poveretti, angariati da un sistema scolastico brutto e cattivo; stanno con la televisione che insegna a tutti a non leggere e a star davanti alle figure dello schermo, seduti sul divano. La ginnastica più impegnativa è quella delle dita sul cellulare nel quale si possono seguire le gesta di tutte le smutandate e degli scout stupratori.
In qualche angolo del Paese non sarà così, ma dove ogni forma che può assumere la parola “anima” è stata sostituita dalla parola “mercato” l’impressione è che al momento non ci sia più nulla da fare. Anzi, là dove il processo di apparente emancipazione nei fatti è stato avviato prima, esso è ormai tanto avanzato da aver assunto il nome di ingovernabilità. A Bologna se ne accorse presto il sindaco Cofferati che, dicendo di voler stare vicino a un figlio che gli era nato a Genova da poco, appena poté farlo si dimise da sindaco del capoluogo emiliano e si fece eleggere nel parlamento di Bruxelles, a due passi, come si sa, dal capoluogo ligure.
Chi mi legge scusi il predicozzo che a non altro mi serviva che a introdurre il girone della follia serale, nel centro di Bologna, già “in prima serata”. È questa la città in cui, all’inizio degli anni Settanta, è stato aperto il primo corso di studi in arte, musica e spettacolo, il c.d. Dams, corso di Lettere e Filosofia nel quale, in questa sede hanno avuto particolare sviluppo gli studi musicologici. Sono certo parecchie migliaia gli studenti che in una quarantina d’anni si sono guadagnati la laurea, fosse anche quella in formato mini, la disgraziata triennale. Ebbene, non so se si usi anche altrove, ma il più evidente effetto degli studi musicali sembra da riconoscere nell’inno che a destra e a manca risuona in periodo di tesi il cui testo dice: «Dottore/ Dottore del buco del cul. Va a fa ‘n cul, a fa ‘n cul» ripetuto ad libitum con enfasi sempre più adeguata alla delicatezza del testo.
Ma in “prima serata”, diciamo dopo le 9 p.m., l’inno non si sente più, canne e cicchetti l’hanno spento. La città goliardica non ha moltissimi bar e sono più o meno in zona universitaria, cioè tra piazza Verdi e le sfortunate vie d’attorno, ma c’è a specchio qualcosa di similmente valutabile (“Come?” “Fate voi”): la zona di via del Pratello, a Ovest di piazza Maggiore, in centro, ma direzione Modena. Se t’allontani fisicamente anche di non molto dalle sedi universitarie, la presenza degli studenti può sfuggirti, ovvero non identifichi più nei ventenni una gioventù studentesca, ma solo assembramenti amorfi, forse di sbandati. Così lo spazio che gravita su piazza Maggiore diventa di anonima goduria per tutti: è lì, attorno al palazzo Re Enzo con due bar che occupano un po’ di piazza e altri due che si accontentano dei voltoni. Naturalmente non è tutto perché sulla piazza gravitano altre strade piene di “maraglia” (parola che è da credere sia una sintesi che unisce marea e marmaglia) che all’uopo si fa notare perché se al rumore non opponi barriere artificiali quello s’espande.
Ma non è di questo che vorrei scrivere, bensì di Charles Ives, di Cage e dell’opera d’arte, che per forza della premessa sarà musicale. Charles Ives fu uno dei primi artisti d’oltre oceano, musicista che non ha precedenti, cioè pioniere. Nella New found land, In chiesa, a scuola, nelle feste certo si faceva musica, ma vecchia, senza importanza, saltarelli scozzesi, valzer e polacche, musica del vecchio continente. Ives, che era nato a Danbury, nel New England, nel 1874, prima che terminasse la guerra civile, fu musicista per necessità della sua anima; per vivere fece l’assicuratore. In anni in cui i rampolli delle famiglie nord americane che avevano qualche propensione per una delle belle arti se ne venivano in Europa a dar consistenza ai propri studi, Ives restò negli Usa e s’applicò alla società d’assicurazione di cui fu titolare assieme a Meyrink. Scrisse anche un trattato che servì a molti per sviluppare un’idea di assicurazione che oggi lo farebbe licenziare in tronco. Si diede da fare cioè perché l’assicurazione lavorasse a vantaggio dell’assicurato.
Come musicista, per i modi in cui visse nel mondo della musica dovremmo trattarlo come un musicista del week end. Si dedicava alla musica nella casa di campagna. Ne componeva, ma non si dava affatto da fare perché fosse eseguita. Aveva però mente aperta e gli ipse dixit non avevano in lui alcun peso. Non cercava editori per le sue musiche, ma egli le aveva, a quanto pare, sempre presenti a se stesso, le riprendeva in mano a distanza di tempo, anche di anni e le modificava, seguendo nuove idee, ma ricordando che sarebbero state opportune in quel testo ormai d’allora.
Come teorico della musica viveva però un equilibrio alquanto incerto, oppure si comportava così per qualche ignota ragione: sta di fatto che mentiva. Non si tratta di cose gravi, ma nelle musiche che aveva nei cassetti lasciava sopravvivere le date della prima stesura, anche quando incompleta e poi modificata a più riprese; ma sentiva anche il bisogno di appoggiarsi a una qualche autorità, quando metteva in campo strutture nuove. L’autorità in oggetto era quella George Ives, suo padre, campanaro e maestro di banda a Danbury, il quale gli avrebbe aperto tutte le porte per uscire dalla grammatica scolastica. Per esempio, uno dei pezzi più noti di Charles Ives è probabilmente Central Park in the Dark. Esso abbisogna di due orchestre e due direttori. Una è orchestra d’archi, l’altra una banda di fiati. Wilfrid Mellers la descrive in maniera piuttosto suggestiva, che riassumo. L’orchestra d’archi accompagna il meditabondo accedere al Central Park di Manhattan dj un viandante meditabondo. E’ notte, nulla turba il fluire di una temperie rilassata quando in lontananza cominciano a prendere corpo i suoni di una banda per feste popolari. Per un po’ le due musiche si mescolano, ciascuna conservando la propria identità, poi i fiati sono lasciati indietro e la narrazione sonora, ricollegandosi all’indisturbato inizio procede fino a concludere.
Ebbene, fatta eccezione dei possibili giochi in S. Marco a Venezia tra i due organi contrapposti della basilica, e di scene teatrali, come il ballo a casa di Don Giovanni, nell’opera di Mozart, non avrei un altro esempio di coesistenza nel medesimo spazio e tempo di due musiche che non si integrano. Nella musica degli Usa altre ne verranno, basti pensare alle Available Form di Earle Brown, ma Charles Ives ha bisogno di dare un fondamento a questo suo comporre e racconta che il padre George, campanaro a Danbury, nei giorni di festa, a volte organizzava percorsi cittadini per 4 bande, studiando i tempi d’avvicinamento e i momenti di sovrapposizione della diverse musiche che ciascuna stava suonando. Nessuno ha trovato memoria che fosse di riscontro a questa narrazione.
Ma sia veritiera o fantastica l’immagine che qui Charles ci dà del padre, essa non è in conflitto con altre dei suoi racconti. Per esempio, ammettessimo che ci sia un genitore che punisca il figlio per cattivi esiti scolastici, anziché svillaneggiare l’insegnante, c’è qualcuno che conosce uno che sia capace di farlo con tanto spirito e creatività quanta ne ebbe George Ives allorché pensò che una buona punizione sarebbe stata di farlo suonare assieme a lui in una tonalità diversa? È sorprendente constatare di quanto si sia arretrati in un secolo e mezzo. Quella punizione equivaleva a frequentare una classe di musica preferenziale. Noi siamo ancora al conflitto sulle differenziali, per non abolire le quali tutto il sistema scolastico, già meno che mediocre, s’è dato un’ulteriore frenata raggiungendo un livello certificato dalla triennale.
Quando quest’ultima vide la luce, all’interno dell’università (personalmente ero nei ruoli del Dams di Bologna, credo doveroso e onesto dirlo) non sentii una voce che si levasse contro, ma vidi una turba di Pangloss impegnati a cercare dove tra la pieghe si potesse individuare qualche possibilità di vantaggi personali. L’unico sul cui viso incontrai un’espressione di profonda amarezza fu Paolo Prodi, professore di storia anche lui a Bologna, a Lettere, fratello del politico economista che fu anche padre della svalutazione tramite Euro. Ma non è di questo che intendo occuparmi e nemmeno delle possibili conseguenze indotte dall’euro nella vita musicale, se ce ne siano state e quali. Se mai sarebbe da discutere il capitalismo in versione Usa (e getta), ben diverso dal capitalismo che incontriamo nel manuale ivesiano sulle assicurazioni.
Se Charles Ives è il pioniere nell’Ottocento della musica nord americana, o anche americana tout court perché in quella latina e meridionale non è che ci fosse qualcosa pur di minimo rilievo (o, se c’era, lo faceva all’insaputa degli interessati), dopo di lui, gli States, che lui vivente andavano ancora completandosi, si avvantaggiarono dei tardivi conflitti nazionalistici in Europa per guadagnarsi, anche senza cercarla, una posizione di primato nell’intero Occidente, avviando quel percorso che porterà, grazie ai nuovi media New York e Los Angeles a prendere il posto che era stato di Parigi e Vienna.
E sono proprio questi ultimi, i media che diventano mass media, i nuovi strumenti che sconvolgeranno il mondo; la democrazia universalizzata, cioè il principio “una testa, un voto”, le onde radio, il telefono, la stampa quotidiana, la fotografia e il cinematografo, gli strumenti di cui si avvalgono le borse per portare ovunque in tempi rapidissimi gli effetti sui capitali delle operazioni che si svolgono al loro interno e influenzare immediatamente tutti i mercati. Intanto l’oggetto da conoscere (il mondo) si va facendo sempre più “difficile” da indagare nella gran pluralità degli aspetti per cui si presenta alle domande della società complessa, cioè cresce a dismisura la richiesta di specializzazione, da quella che c’era. E il bello è che proprio là dove alla fine si deciderà cosa fare della scuola, degli ospedali, dell’energia nei suoi aspetti, degli eserciti, della sicurezza (anche semplicemente nei trasporti) a dir la loro e a contare qualcosa nel dirlo (non come un Tizio qualsiasi al BarOne, che da qualche parte ci sarà) sono chiamati i nessuno, selezionati con cura tra gli insignificanti, individui che verranno chiamati (per legge) onorevoli, individui capaci di pensare che i problemi si risolvono coi divieti (quello del lavoro, per esempio, vietando la disoccupazione, così come quello del razzismo impedendo l’uso del pensiero e della lingua, ma obbligando a usare quella robaccia che vien chiamata “il politicamente corretto”, quelli stradali obbligando ad indossare la c.d. cintura).
I diavoli, i temporali, i terremoti, per loro fortuna fanno liberamente i loro disastri. Ai terremoti si oppone il dove prima, come prima, peggio, ma si spera di no, per chi lo vuole. Sembra che si voglia credere al caso piuttosto che alla necessità. Questo finalmente ci porta a John Cage, che ad Ives non mi pare si sia interessato in maniera particolare. A Cage interessava di più il ruolo del caso, ma come accadimento provocato, non di esso come legislatore. Com’ebbe a dire: “Non sistemiamo le cose in ordine (questa è la funzione dell’uso): facilitiamo semplicemente i processi affinché tutto possa accadere.” A Cage non piaceva il disordine, l’indeterminazione nella esecuzione. Anarchia non era lui non-legge, ma non- profitto, non-potere; anarchia era occupazione di spazi liberi da parte dell’uso, e l’uso è per lui attività. Direi si possa intendere che la rumorosità fuori dall’uso sia semplicemente “casino sonoro” (inopportuna è la parola caos per i rinvii greci che non permettono sia tradotta con disordine.
Ora, tornando agli angoli attorno a palazzo Re Enzo, su un lato di piazza Maggiore, in una serata qualsiasi, ma non in tutte le serate, ti trovi di fronte e come avvolto da una molteplicità di fonti sonore, ciascuna delle quali non significa assolutamente nulla, soddisfatta di essere quello che è. Ti chiedi che cosa sei e dove sei: se quelli sono esseri umani, ti senti un abusivo tra loro. Ma hai letto e capisci quel che la civiltà ti ha offerto e ritieni l’abbia offerto anche agli altri.
Però il mondo che lì ti sta vicino è fatto di gente che, se gli piace essere dov’è per com’è, in casa, ammesso che abbia tre vani, dovrebbe avere un paio di impianti radiofonici e televisivi contemporaneamente accesi in ciascuno di essi. E godersela. Ma forse sono solo degli audiolesi, allattati in discoteca da una qualche sbarbina di Feak Antoni. Di fatto agiscono contemporaneamente il principio di accumulazione e una generica anarchia, indeterminata, priva di collocazione, non situata, ma occasionata da un indistinto vagare di non si sa che. Di fatto la libertà dell’idiota, probabilmente pericolosa prima di tutto per lui.
Però forse la parola idiota non può essere detta da chi voglia essere politicamente corretto. Non sapremmo se sia doveroso dire “diversamente stupido” o “diversamente intelligente”, il che significherebbe comunque che stupido e intelligente siano la medesima cosa. E in effetti, in un pensiero che sappia misurare solo le quantità, incapace di affrontare le qualità, non può essere che così. Ma quale è la quantità che divide la Clinton da Trump? La democrazia qualitativa è forse il problema che si dovrebbe affrontare in parallelo a quello del totalitarismo democratico. Ma nessun politologo lo fa. I politologi dovrebbero essere “disinteressati” alle conseguenze del pensiero della “cosa”. Questa è quel di cui si occupano e il politologo vede comportamenti pratiici, non ha a che fare con alcun ente (naturalmente qualcuno potrà dire che però sì col demente ed io non nego. Il soggetto chiamato in causa non è però riservato a una forma, ma libero di navigare guidato da 5 o più stelle. L’ottimismo di Ives, abbastanza vicino a quello di Dewey non risponde alla paura per la libertà ingenerata dal disordine totale.
Se il silenzio è indifferentemente musica, cos’è la musica, cos’è il silenzio?
NeI Cocoricò di Riccione c’era meno caos (o casino) che il piazza Maggiore a Bologna. Se, e sottolineo se in omaggio a Mina, se questo può essere un motivo da musicofilo per preferire il Cocoricò alla pubblica piazza bolognese, ciò mi pare significhi solo, o soprattutto una cosa: che la musica non si avvantaggia della piazza, anzi che vuole spazi protetti. Non lo sosterrò mai di fronte alla banda dei carabinieri in un gazebo di un parco, ma sempre di fronte a una lirica di Gesualdo, a un madrigale di chi volete, a un noiosissimo minuetto di Mozart, a una liutata di Dowland o ai 6 pezzi opera 6 di Webern. Non sono cose cui sia gradito il rumore, nemmeno quello necessario al Tacet di John Cage. Forse la musica è tale solo se ha bisogno di essere difesa dalla stupida, anonima rumorosità. Se è così, nei bar non c’è musica, gli altoparlanti non ne trasmettono, nelle piazze, attorno ai tavolini dei bar c’è produzione escrementizia e non altro, comunque forse non la peggior cosa del mondo se si sappia darla il valore che ha e il peso sonoro adeguato, un fil di voce.