di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Falstaff è un’opera bellissima, mozartiana per quel suo mescolare gioia e dolore, follia e malinconia, divertimento e amara riflessione sulle cose del mondo. E come tale è molto amata dal pubblico della Scala che l’ha applaudita centinaia di volte nel corso di quasi 115 anni, nell’interpretazione di direttori famosi e di cantanti di grande rilievo. Un Falstaff per ogni Sovrintendente, come è stato dal 1980 in poi è forse un po’ troppo, e non ci eravamo ancora del tutto abituati al pregevole allestimento con la regia di Carsen, andato in scena nel 2013 e nel 2015, che l’amministrazione Pereira ha pensato bene di proporre un ennesimo cambio di rotta approfittando del fatto che nello stesso 2013 l’opera aveva debuttato al Festival di Salisburgo con la regìa di Damiano Michieletto, a ragione considerato uno dei più intelligenti lettori di quel repertorio teatrale spesso preso troppo alla lettera da registi e scenografi o al contrario trasformato in maniera irriconoscibile.
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Il lavoro di Michieletto era già noto a grandi linee per coloro che avevano assistito allo spettacolo salisburghese o attinto a una videoregistrazione apparsa sul mercato. Di novità non si poteva quindi parlare in termini assoluti per questa “prima” scaligera che è andata in scena giovedì scorso con buon successo. E ben nota era l’ambientazione scelta da Michieletto per un’opera che è comunque legata a fil doppio alla Casa di riposo milanese generosamente finanziata da Verdi per gli artisti bisognosi, sia per il fatto che l’opera stessa è una sorta di testamento del Verdi musicista, sia perché la Casa venne progettata da quel Camillo Boito che era fratello dell’Arrigo autore del libretto di Falstaff.
Si tratta di una scelta che oltre ad essere interessante e ben trovata, riesce quasi sempre a svilupparsi all’interno di un canovaccio che non entra in conflitto con le esigenze del libretto, anche se lo svolgimento dell’atto terzo a volte presenta qualche virata non del tutto facile da sostenere. E se l’insistenza con la quale il panciuto eroe della commedia viene ritratto placidamente sdraiato e sonnolento su un bel divano rosso damascato alla fine diventa piuttosto stucchevole e limita l’azione dell’ingombrante personaggio, tante e tali sono le idee profuse a piene mani da Michieletto che sarebbe esercizio banale e inutile l’andare a puntualizzare altri particolari imperfetti e di scarsa importanza. Bellissima, ad esempio, la scelta di contrappuntare il leitmotiv degli incontri fugaci tra Fenton e Nannetta con la comparsa di una coppia di anziani ospiti della Casa di riposo che si incontrano recuperando antichi ricordi e scambiandosi affettuosità che forse solo l’età avanzata può permettere, una volta superati i possibili conflitti di una vita. O il coprire il viso di Falstaff o di Ford nei loro comici tentativi di falsetto con la figura della “bella Alice”, tra l’altro per nulla in carattere con i piagnistei che i due le vorrebbero mettere in bocca. Gli esempi sono tanti e lasciamo allo spettatore la sorpresa di una scoperta continua che rende particolarmente attraente questo spettacolo.
La chiave del quale, però, va trovata nelle parole che lo stesso Michieletto aveva scritto per la presentazione del 2013: “Nell’opera emergono continuamente i temi della malinconia, della vecchiaia e della morte … e tutta la vicenda si svolge un po’ come un ricordo, un sogno o uno scherzo.” Assunto chiarissimo, che non considera però un aspetto burlesco irrinunciabile per qualsiasi lettura del Falstaff verdiano che, non dimentichiamolo, è una Commedia lirica. Il carattere malinconico sottolineato da Michieletto è risultato ancora più pronunciato grazie a due eventi concomitanti. Falstaff è diviso in tre atti, ognuno dei quali è a propria volta composto da due quadri. Quale che sia la scelta dell’intervallo o degli intervalli, il carattere allegro e festoso di tutti e sei i finali, tranne forse il quinto, corrispondente alla conclusione del primo quadro del terz’atto, è da sempre stato accolto dal pubblico con applausi festosi, scaturiti spontaneamente grazie a queste chiuse verdiane che sprizzano allegria e buonumore.
L’altra sera gli applausi erano molto timidi, anche tacitati dagli attacchi immediati del quadro successivo voluti evidentemente sia dal regista che dal direttore, e ciò ha contribuito non poco a stendere un’atmosfera piuttosto funebre sull’insieme. Una atmosfera che rende ancora più improbabile l’ottimismo piuttosto forzato della fuga finale (l’ottimismo dei sepolcri, verrebbe da dire, parafrasando la celebre sentenza del Marchese di Posa) e al raggiungimento della quale ha contribuito anche la direzione piuttosto stagnante di Zubin Mehta, che ha avuto però il pregio di farci ascoltare con impressionante dettaglio i terribili pezzi d’assieme nei quali si ascoltano sovrapposizioni ritmiche, scioglilingua, garbugli che avrebbero fatto tremare persino Rossini. Tutti particolari che, soprattutto nelle versioni più concitate quali quelle di Toscanini o la folle e insuperabile edizione di De Sabata del 1951, vengono fatalmente persi. Ma per il resto Mehta non ha certo aiutato la comprensione di un flusso musicale che si fa spesso contrappunto a un testo di vivacità linguistica più che unica.
E non sono del tutto emersi neppure i cantanti, che non avevano modo di proporre un proprio contributo spontaneo, tanto erano legati senza scampo al meccanismo ad orologeria voluto da Michieletto e tenuti a freno dal direttore. Maestri è sicuramente il Sir John per antonomasia da ormai quindici anni, ma non ha più lo smalto vocale d’un tempo; la Giannattasio è parsa un poco sottotono rispetto alle analoghe prove di due anni fa; Massimo Cavalletti ha ancora dato buona prova di sé ed è apparso l’attore più spontaneo e a proprio agio in questa messa in scena. Pregevoli sia la Meg di Annalisa Stroppa che la Quickly di Yvonne Naef, mentre i pur bravi Giulia Semenzato e Francesco Demuro non hanno fatto dimenticare altri interpreti anche recenti dei ruoli di Nannetta e Fenton. Del tutto nella parte era il dottor Cajus di Carlo Bosi e più generici il Bardolfo e il Pistola di Francesco Castoro e Gabriele Sagona. Applauditi assieme a Bruno Casoni gli elementi del coro, ospiti e talvolta inservienti di quella Casa Verdi che a tutti gli effetti è stata la vera protagonista di questo Falstaff.
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