di Antonio D'Amato
Certo che se dovesse mantenere la parola e smettere di suonare a soli trentacinque anni (adesso ne ha trentatré), beh allora ci resta ancora poco tempo per goderci gli ultimi cimenti pianistici di Yuja Wang.
Ma magari no, e dopo aver cancellato sei date del suo tour europeo da solista, causa lo stress dovuto alle restrizioni-costrizioni Covid imposte in giro nel vecchio continente e che l’hanno “costretta” agli ultimi forfait, la formidabile pianista cinese, sabato sera a Rotterdam, c’è!
È una Wang bellissima quella che sale sul palco del De Doelen avvolta nel suo sbrilluccicoso abito lungo e accompagnata dal giovane direttore finnico Tarmo Peltokoski (un predestinato), per eseguire al pianoforte ‘’L’Alpha e l’Omega” di Sergej Rachmaninov.
La Wang si mette da parte quel pianismo iperbolico, troppo spesso volto al glamour, evanescente nelle intenzioni, poco partecipativo nelle emozioni che le ha di certo garantito l’ascesa all’olimpo degli dei della tastiera in streaming. Lo stesso mirabolante pianismo l’ha incatenata al clichè critico-musicali di artista dal ridondante vituosismo. Stavolta al centro della performance di Yuja c’è finalmente la musica, accomodando in platea la diva per una sera e concentrandosi sulle ‘macchie nere’ che affollano i pentagrammi di Rachmaninov.
Il Concerto n. 1 in fa diesis minore, composto nel 1891 (l’alpha appunto) e dedicato ad Alexander Siloti, funge da warm up e la muscolatura degli avambracci via via si scioglie dopo l’attacco piuttosto rigido nei ribattuti d’ottave che aprono il primo movimento. Il virtuosismo plastico della Wang prende forma, giusto il tempo di una planata nell’Adagio centrale in re maggiore dove i pianissimo hanno quattro o forse cinque p (impercettibili, ultrasuoni), per poi ripartire a mille all’ora nel finale in cui persino il ventunenne Peltokoski stenta a starle dietro. Multata per eccesso di velocità.
Tutt’altra storia racconta la Rapsodia su un tema di Paganini op. 43 (l’Omega), probabilmente una delle esecuzioni più belle ascoltate dal vivo negli ultimi anni. Memorabile per la potenza evocativa profusa nelle prime sei variazioni, tirate via tutte d’un fiato, in apnea. L’appassionata dolcezza della diciottesima variazione è la favola che vorresti non finisse mai. Bis a quattro mani, spalla e spalla con Tarmo per la pirotecnica danza ungherese di Brahms.
Chiara e intensa l’esecuzione della Seconda Sinfonia di Jean Sibelius, capolavoro tardo romantico dai toni spiccatamente nordici, ben armonizzati, in simbiosi con tutte le sezioni dell’orchestra. Lavoro complesso e ricco di strappi dinamici che in realtà la caratterizzano in termini di intensità espressiva, una volta trovata la manopola del controllo. Problema brillantemente risolto dal giovane debuttante Peltokoski, padrone assoluto del tempo e dello spazio nella partitura, controllo e tecnica da far invidia a tanti suoi più navigati colleghi.
Il finale ha l’argento vivo addosso, brillante tra le mani di Peltokoski che plasma il suono della Filarmonica di Rotterdam rendendolo prima caldo e rassicurante, poi asciutto e sferzante, fragorosa apoteosi, insomma viva Tarmo Peltokoski il predestinato.