di Gianluigi Mattietti
Organizzati in seno alla Philharmonie del Lussemburgo, i Rainy Days si sono accreditati in pochi anni come una delle maggiori rassegne europee di musica contemporanea. Nel programma di quest’anno, ricco di concerti e istallazioni sonore, intitolato “out of this world”, votato all’esplorazione di dimensioni musicali utopiche, a immaginarie avventure nel mondo della scienza e della natura, con interessanti spunti di riflessione, spiccava il nuovo pezzo per orchestra di Marc Andre, Vier Echographien, nato come un tentativo di trasferire in musica la dimensione più profonda e spirituale di un’architettura, di un luogo con la sua storia i suoi simboli.
Il compositore si è basato infatti su sonogrammi presi dall’acustica della Chiesa del Santo Sepolcro (già utilizzati per l’opera Wunderzeichen del 2014) capaci di catturare l’aura sonora di quei luoghi per «aprire una porta su ciò che si trova tra il reale e il virtuale». Da quelle “ecografie” Andre ha ricavato tutti i materiali per la composizione, comprese le proporzioni temporali, creando una musica dematerializzata, fatta di sospensioni, situazioni liminari, interstizi musicali ai margini del percepibile, turbolenze di fondo, momenti pulsanti e frenetici ma sempre soffusi, strutture fragilissime ma sempre cariche di tensione, dalle quali affioravano figure sorprendentemente espressive, o carillon con frammenti di Träumerei di Robert Schumann. Questa dimensione sonora magica, soprannaturale, collideva con gli altri pezzi eseguiti nello stesso concerto, diretto da Brad Lubman sul podio dell’Orchestre Philharmonique del Lussemburgo: il caotico e frastornante Sori (1980) di Younghi Pagh-Paan, ispirato a musiche tradizionali coreane; il breve, magmatico Čvor (2021) di Milica Djordjevic; il fantasioso Minds in Flux (2021) di George Lewis, basato su una proliferazione di materiali, spazializzato, pieno di elementi descrittivi, che acquistavano densità e respiro sinfonico.
Di grande interesse sono stati anche i due concerti di Karin Hellqvist e Juliet Fraser. La violinista svedese e il soprano britannico, punti di riferimento per molti compositori di oggi, hanno presentato diversi lavori con elettronica, in vario modo legati a questioni ambientali e climatiche. Solastalgia, nuovo pezzo per violino nato dalla stretta collaborazione tra la Hellqvist e Carola Bauckholt, prendeva il titolo da un neologismo, coniato nel 2005 dal filosofo naturale australiano Glenn Albrecht, e riferito allo stato di angoscia che affligge chi ha subito una tragedia ambientale. Ispirandosi alle immagini del ghiaccio che si scioglie e alle sorti della calotta antartica, il pezzo disegnava una mappa sonora immaginaria, basata sui suoni dei movimenti dei ghiacciai, sulle metamorfosi create dal disgelo, che risuonavano come lamenti, come ululati, che si trasformavano in suoni bordone, fasce armoniche, battiti ariosi, elastici e leggeri tra frammenti melodici e cigolii, e che si moltiplicavano e si espandevano tra gli altoparlanti. La Hellqvist ha eseguito anche un altro delizioso lavoro della Bauckholt, Doppelbelichtung (2016), entrato da tempo nel suo repertorio, nato dall’idea di fondere in un’unica immagine sonora il suono del violino e il canto degli uccelli, come se il violino stesso potesse «diventare un uccello»: una breve figura ripetitiva si trasformava in una trama sempre più fitta e avvolgente, in una foresta di suoni, anche questa proiettata nello spazio attraverso dodici altoparlanti. Anche la Fraser ha eseguito uno dei suoi cavalli di battaglia, The Mouth (2020) di Rebecca Saunders, un monologo interiore, ovattato, che indagava la voce come un corpo fisico che produce suono, esplorando l’ampia gamma di suoni, sussurri, respiri prodotti nella cavità orale, come soglia tra due mondi, tra il dentro e il fuori. Ma ha presentato anche due nuovi lavori, da lei commissionati per un ciclo denominato “The Carson Commissions” perché ispirato agli scritti di Rachel Carson, biologa marina e ambientalista, autrice di una celebre Trilogia del mare: se I birth the moon di Nwando Ebizie è parso un pezzo piuttosto ingenuo e naïf sul mito della creazione, ha invece incantato il lavoro di Newton Armstrong, The Book of the Sediments, che partiva dall’immagine del lento accumulo di sedimenti nel mare profondo per creare una dimensione sonora contemplativa, fatto di lunghi suoni vocali, battimenti con l’elettronica, lenti glissati discendenti.
Altro esempio di una fruttuosa collaborazione tra compositore e interprete, ancora ispirata al mare, è stato Seafloor Dawn Chorus (2019) di Kristine Tjøgersen, nel concerto dell’Ensemble Recherche (per lo stesso ensemble la compositrice norvegese aveva già composto il trio per archi Habitat, eseguito a Witten): pezzo molto evocativo e “corale”, che partiva da alcune registrazioni subacquee del canto dei pesci nella Barriera Corallina, per svilupparsi attraverso brusii timbrici, suoni continui e pulsanti, delicate zone liriche, soffi, sibili, suoni filiformi, effetti misteriosi (come i suoni dei tubi armonici, o quelli ottenuti suonando il vibrafono con una bomboletta di aria compressa. In perfetta sintonia con l’idea di esplorare mondi lontani, la rassegna lussemburghese si è archiviata con Le Noir de l’Étoile, pezzo storico di Gérard Grisey, ispirato ai suoni delle pulsar, e affidato all’impareggiabile esecuzione delle Percussions de Strasbourg: i sei percussionisti disposti su sei piattaforme intorno al pubblico, come fossero in orbita, alternavano suoni di pelli, legni, metalli, organizzati in una struttura temporale derivata dalle velocità di rotazione e dai timbri generati dalle pulsar. Non un romantico notturno, non l’evocazione sentimentale del cielo stellato, ma una musica violenta, ritmica, ansimante, che faceva percepire la “schiuma” dello spazio e del tempo.