In prima esecuzione europea l’opera del compositore cinese, basata sull’omonimo romanzo di Lao She (1899-1966): è uno dei testi più popolari ed amati e narra una storia universale di povertà


di Luciana Galliano  foto © Mattia Boero


Il Festival MiTo 2015 si conclude con il sontuoso allestimento de Il ragazzo del risciò di Guo Wenjing in prima esecuzione europea, quinta opera del compositore dopo i successi internazionali delle opere degli esordi, Wolf Cub Village e Night Banquet. Dopo il Teatro Regio di Torino la troupe di oltre duecentocinquanta persone (cantanti, orchestra, coro tecnici ed altro personale del China National Centre for the Performing Arts NCPA di Pechino) andrà a Milano, Parma, Genova, Firenze e Roma.

Il compositore Guo Wenjing
Il compositore Guo Wenjing | Foto Gianluca Platania

La produzione fa parte degli scambi culturali fra Italia e Cina, celebra i quarantacinque anni di relazioni diplomatiche fra i due paesi, ed è nata in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Pechino su commissione del NCPA insieme all’Opera di Pechino, che non è il tradizionale genere popolare di teatro musicale, ma il meraviglioso “Uovo” di specchio nell’acqua, il Gran Teatro Nazionale Cinese progettato da Paul Andreu dove il pubblico cinese, per cui tutto il teatro è operistico cioè musicale e di tradizioni antiche e raffinatissime, impara, dall’inaugurazione nel 2008, a familiarizzare con l’opera di Verdi, Puccini, Wagner, Bizet, Rossini ed altri.

Guo Wenjing (1956), uno dei grandi talenti della xin chao, la nuova generazione di compositori che nel 1978 entrò al Conservatorio Centrale di  Pechino appena riaperto, il solo che sia rimasto a lavorare in Cina pur riscuotendo grandi successi internazionali, è “artista profondamente radicato nella cultura cinese e con una solida preparazione occidentale”.

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Guo Wenjing, musicista cinese fatto e finito quando intraprese gli studi di conservatorio, fa un uso della musica occidentale che corrisponde ad una delle tante parole dordine del Partito rispetto a cui il compositore si è barcamenato nella sua carriera, qualcosa come “che il mondo serva alla Cina”. Nell’incontro di presentazione che si è tenuto il giorno prima della prima cui hanno partecipato il direttore artistico di MiTo Enzo Restagno, dimessosi ieri dall’incarico, la Direttrice dell’Istituto di Cultura a Pechino Stefania Stafutti, il bravissimo traduttore Lorenzo Restagno e il compositore, questi – fascinoso e coerente: parla solo un bellissimo cinese! – ha chiaramente detto di essersi cimentato in quest’opera con il bel canto, di essere emozionato, come tutti gli interpreti, a presentarsi con un’opera nella patria dell’opera, e che infine come molti altri “oggetti” occidentali sono in uso in Cina, anche l’opera all’occidentale ha una sua ragione d’essere accanto al repertorio classico del teatro cinese, di cui ha segnalato le differenze.


I compositori cinesi sono tenuti a conoscere Giacomo Puccini, nessuno dei compositori italiani conosce ad esempio Xian Xinghai


Il libretto di Xu Yung, e la prof. Stafutti ne ha sottolineato la raffinatezza, è basato sull’omonimo romanzo di Lao She (1899-1966), un classico della letteratura cinese del XX secolo e uno dei testi più popolari ed amati; narra una storia universale di povertà, marginalità e vessazione, dai tratti autobiografici, nella tragica vita di un conducente di risciò della Pechino anni Venti: il vigoroso e volonteroso Xiangzi tenta disperatamente di riscattare la propria condizione e coronare il proprio amore ma viene raggirato, sfruttato e infine ridotto a totale abbrutimento da una serie di personaggi altrettanto vessati dalla vita – il finale tragico di infelici destini essendo, peraltro, un tratto abbastanza tipico dell’opera verista. L’intera vicenda si svolge nella Pechino precedente alla rivoluzione e l’opera è anche una sorta di memoria e omaggio allo scrittore Lao She, morto in circostanze mai chiarite durante la Rivoluzione Culturale, e alla millenaria città completamente sfigurata dalla modernità.

Sicuramente Guo è riuscito nel suo intento di scrivere un’opera che perfettamente si iscrive nella tradizione verista; già dall’ouverture si resta un po’ interdetti dal gioco di specchi cinesi-pucciniani. La scrittura, peraltro molto sapiente, espressiva e ricca di dettagli strumentali all’interno di un’orchestra sfruttata appieno in ogni colore, è in effetti nel solco “al quadrato” dell’opera tradizionale, compresi gli interventi degli strumenti cinesi più popolari, il sonoro suona (sorta di oboe) e lo strumento a corde sanxian. Ed è una scrittura abbastanza diversa dalla fulminante scrittura di Guo, anche di quella operistica – a Roma si era apprezzata la visionarietà lunare di Poet Li Bai, la sua terza opera dedicata al grande poeta dell’VIII secolo – di cui conserva l’acume e la bellezza ma forse non l’attualità. Un originale uso della tonalità e il realismo delle scene concorrono ad una sensazione ottocentesca, e molti fra gli ascoltatori più avvertiti parlavano alla fine di “clone”, di inutile tuffo nel passato; aleggia il sospetto di trovarsi davanti ad una “opera di stato”, vista anche l’imponenza dei mezzi dispiegata. Ma credo che una prospettiva più significativa sia quella di collocare la composizione in un contesto, effettivo se pur parziale, di colonialismo culturale. Come mi diceva un compositore non europeo, «quando si parla di cultura, nel mondo, si parla di cultura occidentale

I compositori cinesi sono tenuti a conoscere Giacomo Puccini, nessuno dei compositori italiani conosce ad esempio Xian Xinghai; qualcuno conosce Li Bai soprattutto per via di Mahler (che ne ha usato nel Lied von der Erde) ma qualsiasi non europeo di cultura non potrebbe ammettere di non conoscere Shakespeare o Dante. In questo contesto anche la composizione di un’opera in apparenza conservatrice ha il senso di collocarsi alla pari nell’alveo di quella che è la cultura imperante, di cui si domina l’economia in realtà subendo un modello di potere, dominante. Considerando anche che modelli storicistici di “passato / attualità” non possono certo applicarsi ad una differente congerie culturale. Discorsi difficilissimi da affrontare in una umile recensione, ma con cui vorrei sottolineare l’incredibile bravura e preparazione del compositore e degli interpreti tutti, e difendere il grande successo che l´opera ha riscosso e probabilmente riscuoterà fra il pubblico non solo cinese (e non imparato).

Sicuramente molto del significato evocato dalla tessitura musicale di Guo, come un broccato, ha radici non solo nel passato europeo ma anche nella millenaria tradizione operistico-musicale cinese, ciò che può essere solo intuitivamente percepito da orecchie occidentali; sicuramente per la scelta degli interpreti la direzione dell’Opera di Pechino ha potuto attingere ad una vasta riserva, e mi ha colpito soprattutto l’omogeneità del livello e direi addirittura del colore.  Poiché i nomi non dicono molto alle nostre orecchie, ricordo solo il protagonista Han Peng, perfetto anche scenicamente nel tirare il suo bel risciò, Sun Xiuwei soprano luminoso che impersona la calcolatrice moglie di Xiangzi e il grande basso Tian Haojiang (che era il protagonista di Poet Li Bai) che dà, generosamente, voce al cattivo. Il direttore d’orchestra Zhang Guoyong, preciso nel mantenere la coerenza della imponente partitura e nell’esaltare le tante voci interne soprattutto di percussioni e fiati, aveva già diretto la bellissima terza opera Poet Li Bai; il regista Yi Liming, figura prominente nel teatro cinese dalle scene classiche al dramma moderno, ha reso una Pechino prerivoluzionaria con una dovizia di particolari che non può che incantare. Che ha, in effetti, incantato: applausi scroscianti, sicuramente dalla percentuale cinese ma anche da tutto il pubblico, colpito e coinvolto dalla universalità del racconto e dalla bravura di tutti quelli che hanno contribuito a realizzarlo sulla scena.

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Luciana Galliano

Luciana Galliano

Musicologa e studiosa di estetica musicale, ha coniugato un approfondito interesse per la musica contemporanea con una speciale attenzione alla musica contemporanea giapponese. Ha a lungo insegnato Antropologia Musicale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha collaborato con Luciano Berio per le ricerche musicologiche delle sue Norton Lectures (1993); collabora con le maggiori riviste musicologiche e con diverse istituzioni musicali tra cui CHIME (European Foundation for Chinese Music), i Festival MilanoMusica e MiTo, TextMusik. Responsabile della sezione musicale per il CESMEO (Istituto Internazionale di Studi Asiatici Avanzati), è corrispondente dall’Italia per alcune riviste musicologiche giapponesi. Ha partecipato ad innumerevoli convegni internazionali e tenuto conferenze in molte università italiane, giapponesi e americane. Ha pubblicato articoli su riviste scientifiche, contributi a volumi con Olschki, EdT, Guerini, Bärenreiter; i libri Yōgaku. Percorsi della musica giapponese nel Novecento (Cafoscarina 1998; ed. inglese: Yōgaku. Japanese Music in Twentieth Century, Scarecrow 2002); Musiche dell’Asia Orientale (Carocci 2004), The music of Jōji Yuasa (Cambridge Scholars Publ. 2011).

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