Spirito indomabile e ribelle, virtuoso lisztiano insuperato, improvvisatore “libertino”. Breve ritratto di un interprete geniale e discusso
Le prime “lezioni” di pianoforte le ruba alla sorella ripetendo i suoi esercizi, dopo averli appena ascoltati. Tiene il suo primo concerto a soli cinque anni all’interno di uno spettacolo circense e a sedici è già in tournée per il mondo. Parliamo del pianista di origine ungherese Georges Cziffra (nato nel 1921), naturalizzato francese, il cui talento eccelso è forgiato all’Accademia Franz Liszt alla quale ha accesso all’età di nove anni, diventando il più giovane mai accolto in quell’importante Istituzione. Studia con György Ferenczi e Ernő Dohnányi. Da quest’ultimo il giovane Georges impara l’arte della forma e del rigore tipici del repertorio classico di cui Dohnányi è pregevole esecutore al pianoforte, oltre che studioso.
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Spirito indomabile e ribelle, alle immense doti tecniche Cziffra unisce spiccate capacità d’improvvisatore: l’improvvisazione è per lui un atto musicale fondamentale, perché permette di innescare un processo di autosuperamento, mettendo in collegamento l’esecutore con se stesso. Questo e molti altri aspetti rendono il suo genio affine a quello lisztiano. Intervistato alla Magyar Rádió di Budapest, Cziffra racconta: “Ho cominciato a suonare il pianoforte alla stregua (di Liszt) quando ero piccolo […] Penso che le mie capacità d’improvvisatore non fossero particolarmente inferiori alle sue. Non è una questione di modestia o vanità, la questione è che a quei tempi ero in grado di improvvisare e riuscivo a pensare dalle quattro battute in avanti. … Allo stesso tempo però, modello bene la forma del pezzo. Non sto solo interpretando, in quel momento creo un pezzo! Perciò, credo di essere compositore in un certo senso, non del livello di Liszt, ma condividiamo alcuni tratti”.
Discorrendo sul repertorio lisztiano continua dicendo:“Ho sempre avuto una comprensione naturale di Liszt; ho visto i suoi lavori sulla carta e in un modo o nell’altro ho trovato un immediato e innato collegamento con la sua musica. Questo è un fenomeno per il quale difficilmente potrei trovare una spiegazione. Ancora oggi lavoro su un breve pezzo di Liszt. Lì imparo molto velocemente”. Non tutto il repertorio listziano è, in verità, suonato da Cziffra, a differenza di Leslie Howard: non il Liszt giovanile, non il maturo. Esegue spessissimo il Gran Galop chromatique, ma non le grandi trascrizioni. Ha sempre in repertorio Jeux d’eau à la Villa d’Este e la prima Valse oubliée, ma non s’accosta mai alle altre, alle Czardas (nonostante la sua origine tzigana ungherese), ai piccoli pezzi esoterici, enigmatici o armonicamente visionari come la bagatelle sans tonalité.
Nel 1955, dopo cinque anni di inattività (tre anni di lavori forzati per essersi ribellato al regime e due di riabilitazione, per rimediare ai danni alle braccia), si classifica primo al Premio Liszt di Budapest, trampolino di lancio per una carriera ancor più densa d’impegni e riconoscimenti.
Virtuoso della tastiera, geniale improvvisatore, uomo di grande carisma e personalità, Cziffra ama definire l’interprete un “amplificatore di un campo magnetico”, e denuncia la presenza di esecutori dalla tecnica irreprensibile e meravigliosa, ma che non sanno interpretare. “La loro interpretazione è anonima. Suonano perfettamente, ma non interpretano. Ho sempre l’impressione che manchi qualcosa. Dov’è l’arte? Dov’è l’ispirazione?”, afferma durante l’intervista concessa al suo ex alunno Erik Pigani. Definisce l’esecuzione molto faticosa e frutto di un atto di coraggio. Non ha assolutamente paura di entrare in scena, ma avverte tutta la responsabilità di dover consegnare nel miglior modo possibile un messaggio al pubblico. Ascoltare un suo recital è come partecipare a un rito religioso. Anche la scelta del programma non è mai casuale: “Mettere insieme dei programmi è come costruire una casa, un atto di per sé creativo”. Nella stessa intervista definisce i suoi concerti e il suo rapporto con il pubblico come un atto d’amore durante il quale dimentica tutto, il pianoforte, i rumori, lo smoking, e invece risuona questa sintonia tra pubblico, compositore ed esecutore. Potremmo definire il suo pianismo polarizzato: da un lato abbiamo la tecnica sorprendente, il bel suono, fantasioso e libero, dall’altro gli elementi che certa critica gli rimprovera quali l’arbitrio eccessivo, la mancanza di intuito per le grandi forme, una certa povertà nel ricreare grandi tensioni. Ma è sufficiente ascoltare la sua interpretazione della Sonata in si minore o della Dante Sonata per capire quanto controllato fosse il dominio delle macrostrutture e quale tensione drammatica fosse in grado di creare.
Cziffra incide nel 1957 le prime quindici Rapsodie ungheresi: fenomenali per la tecnica scintillante e per le prodezze virtuosistiche, incredibili per il senso di epopea nazionale ungherese che da esse si sprigiona. Nel 1976 le registra nuovamente aggiungendo la sedicesima e la diciannovesima. Ma la sedicesima, e soprattutto la diciannovesima, le riscrive nello stile di Liszt di trent’anni prima.
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Il pianista brilla anche nell’interpretazione della musica di Chopin. Degno di nota il recital tenuto a Tokyo nel 1964 (concerto che poi diviene un disco). Nella prima parte interpreta, tra i vari brani, la Fantasia op. 49 con commozione ed eleganza nei tratti più cantabili e piglio sicuro nei momenti più virtuosistici. Imperdibile anche l’incisione degli Studi op. 10 e 25 di Chopin. Piero Rattalino parlando dell’argomento afferma: “La sua incisione degli Studi op. 10 e op. 25 è tutta una grande, gigantesca trombonata. Non sono esangui, gli studi di Chopin, non sono privi di nerbo. Ma emaciati sì, lo sono. Con Cziffra diventano rubizzi, come creature del Greco ridipinte da Botero. Quando uscì il disco con gli Studi di Chopin, Alberto Mozzati, che conosceva tutte le incisioni possibili ed immaginabili, e che aveva un orecchio finissimo, mi disse: “Secondo me, il primo Studio op. 10 lo trucca: usa il pedale tonale e prende con la sinistra molte note della destra”. Non so se Mozzati aveva ragione, ma la combinazione di velocità e forza di Cziffra aveva veramente dell’incredibile. E, musicalmente, aveva del mostruoso.”
Negli ultimi anni della sua vita le apparizioni pubbliche e i recital si fanno più sporadici, anche a causa della morte di suo figlio avvenuta nel 1981. La depressione e l’alcol faranno il resto.
Cziffra si spegne il 17 gennaio 1994 all’età di settantatré anni, in seguito ad un attacco cardiaco. Ci piace ricordarlo usando le sue stesse parole che sono un manifesto non solo artistico, ma anche di vita: “Nella nostra epoca regna la tecnologia: l’uomo va sulla Luna, parte per la conquista delle stelle. Io preferisco stare qui sulla Terra, dove sono nato. Amo la mia condizione di essere umano, limitato, ma capace nel contempo di abbracciare l’infinito”.
Mario Leone
Non concordo su tutto quello che ho letto sull’articolo.Dobbiamo rammaricarci del
perché Cziffra non ha inciso,ad esempio,altre opere di Chopin o perché poco
Rachmaninoff.O come per eempio la EMI,gli abbia fatto registrare gli Anni di Pellegrinaggio di Liszt e poi,in fretta li abbia posti fuori catalogo.
Insomma,Cziffra non è stato solo l’interprete di Liszt,e forse, lui stesso si è intimidito e non ci ha lasciato altri autori registrati
Enrico Mealli
non so davvero come si possa Non conoscere Cziffra! E’ famosissimo da sempre!
Non conoscevo questo interprete: è stato un “incontro” davvero interessante!