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Charles Ives, un “eroe americano” alla Kafka

di Giampiero Cane
9 Marzo 2015
in Americana, Approfondimenti
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Home Americana
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Ha svolto il lavoro di assicuratore per molti anni della sua vita, la musica nel cassetto fino alla prima maturità, premio Pulitzer nel 1947, adorato da Leonard Bernstein e Frank Zappa. Il nipote ha venduto ora la sua casa di Redding, nel Connecticut


di Giampiero Cane


NEL 1939 CHARLES IVES ERA ANCORA UN MUSICISTA QUASI DEL TUTTO SCONOSCIUTO, ma aveva già 65 anni, essendo nato nel 1874. Da tre lustri almeno aveva smesso di scrivere musica, quando alla Town Hall di New York John Kirkpatrick, il 20 gennaio del ’39, diede la prima esecuzione assoluta della sua seconda sonata per pianoforte, la Concorde. Concerto e performance ebbero successo, ma il nome di Ives, che Frank Zappa, dopo un’altra trentina d’anni, indicherà tra i suoi maestri spirituali, allora solamente cominciava a conquistarsi una qualche pubblica familiarità.


Quando nel mondo d’oltreoceano la produzione di Ives comincia a farsi strada, l’Europa musicale è concentrata a Darmstadt


Bisognerà attendere altri 8 anni almeno, cioè il 1947, quando gli verrà assegnato il premio Pulitzer, per poter dire che Charles Ives era approdato finalmente a un importante molo della scena pubblica. In veste di manager delle assicurazioni egli già aveva ottenuto i riconoscimenti cui poteva aspirare e s’era, per così dire, messo in pensione. Del resto non era dipendente, ma socio nelle assicurazioni Ives & Myrick, nella cui gestione egli si rivelò un imprenditore strano per l’ottica d’oggi, capace di prendersi a cuore il senso ideale delle assicurazioni e di applicarvisi, affatto alieno dal mettere il proprio rendiconto davanti a tutto.

Nel 1920, quando già da dieci anni la società aveva fondato una sua scuola di formazione professionale per agenti, Charles Ives aveva pubblicato una “Guida all’assicurazione: criteri per la valutazione del cliente”, accolto prima da una rivista, poi stampato e ristampato come opuscolo, la cui prima parte ha certo un valore soprattutto tecnico, ma con una seconda parte utile invece anche a quanti vogliano penetrare un poco il pensiero etico del musicista con le idee che esprime mostrando il profondo rapporto che esisté in Ives tra l’uomo d’affari e, diciamo, il filosofo. “La mia esperienza nel mondo degli affari – ebbe a dire – m’ha rivelato tanti aspetti della vita che altrimenti non avrei mai conosciuto. Ho visto tragedie, gesti nobili, meschinerie, […] lottare fino all’ultimo per questioni di principio, mettendo a rischio i propri affari e se stessi […] e sono giunto quasi a convincermi che i problemi nuovi e sconosciuti vengono esaminati con maggiore imparzialità, buon senso e buona volontà nel mondo degli affari piuttosto che in quello della musica. […] La vita nel mondo degli affari n’ha donato un sentimento di completezza; tutti gli aspetti dell’esistenza vi si ritrovano a costituire l’insieme. Non si può mettere l’arte in un suo angolo e pensare che da sé si svilupperà piena di vitalità, di realismo e di sostanza”. Ma non è né alla sua filosofia, né all’impresa economica che Charles Ives deve oggi la notorietà che egli ha ottenuto. Più lentamente che con l’altra attività sua, egli l’ha conquistata con la musica.

Ives nel 1946 c.a. nel giardino della residenza estiva di West Redding (foto Halley Erskine)

Non che il mondo artistico gli fosse stato avverso, ma egli stesso aveva in qualche modo sacrificato la sua vocazione prima alla ragion pratica. Non c’è concordia universale nella critica nel valutare la sua ritrosia ad affrontare come musicista la pubblica scena: chi propende per timori e insicurezza ha di fronte chi pensa che Ives ritenesse fuorviante e deformante per l’arte quel luogo e quelle occasioni in cui essa è piegata a diventare danaro, cioè l’imprenditoria dello spettacolo, anche di quello colto, e che da ciò volesse preservare la sua musica. Sta di fatto che le sue produzioni gli rimasero sulla scrivania per anni e si accumularono, mentre continuamente egli veniva cambiando qua e là questo o quel momento di quel che aveva già scritto, coll’effetto di far impazzire i filologi. Nel dopoguerra, dal 1945, quando Lou Harrison portò alla première la sua terza sinfonia, da Ives completata nel 1911, l’attenzione di parte del mondo della musica si fece crescente: Bernstein farà ascoltare nel 1951 la seconda sinfonia, ma ancora nel ’55, la quarta non era stata mai eseguita nella sua completezza.

Mentre già negli anni Sessanta Frank Zappa aveva indicato in lui uno dei maestri del suo pensiero musicale, dagli anni Settanta la musica di Ives entrò nei programmi concertistici e venne affiancata da molte registrazioni discografiche. Nel 1964, in quel libro fondamentale che fu Musica nel Nuovo Mondo, Mellers ne scrisse come di un “eroe americano”. Ives però vide solo gli albori del successo che avrebbe avuto la sua musica, perché morì nel 1954, quando già da una trentina d’anni aveva smesso di scrivere musica, dovendo anche lasciare di lì a poco, nel 1930, l’attività nelle assicurazioni per suoi problemi di salute. Pur con il grande ritardo l’interessamento è poi cresciuto enormemente e la bibliografia su di lui è ormai ricchissima.

C he cosa, vien da chiedersi, ha ritardato tanto il giusto riconoscimento dell’alta qualità creativa di quest’artista? Quando nel mondo d’oltreoceano la produzione di Ives comincia a farsi strada, l’Europa musicale è concentrata a Darmstadt, vicino a Francoforte, nei corsi estivi che sviluppano col grande impegno di Messiaen e Boulez le idee basilari dell’arte di Schönberg e dei suoi allievi, Berg e Webern; è cioè immersa nei processi della serializzazione e nelle possibilità di sviluppo di quanto messo in campo dalla scuola viennese della dodecafonia. Per questo non rivolge quasi per nulla la propria attenzione a un maestro quale Ives, la cui musica è immersa in una visione del mondo e dell’arte proprio distanti. A differenza dei fautori della moltiplicazione, gli analitici, egli propende per l’accumulazione. Sposta da una musica all’altra vasti momenti sonori, “ammoderna” pagine già scritte inserendovi nuovi ritrovati linguistici. Mente spudoratamente su tutto e attribuisce a suo padre le concezioni eterodosse che trovan sede nei suoi pentagrammi. Ma tutte vengono conosciute dal mondo con grande ritardo.

Dunque non è affatto facile cogliere con immediatezza le sue novità musicali e forse lo è ancor meno partecipare a un pensiero che come quello di Ives ha le sua fondamenta nel trascendentalismo americano di quei bostoniani dell’Ottocento che rispondono ai nomi di Emerson, Hawthorne, degli Alcotts e di Thoreau, un tal punto di riferimento per Ives che i quattro movimenti della sua “Concord” ne portano nell’ordine il nome. Sebbene si cominci a constatare la somma qualità della musica di Ives, dai dettagli analitici questa qualità risulta realizzata con strumenti espressivi che vengono rapidissimamente superati quando la forza espansiva dell’espressione quasi esplode dopo gli anni durante i quali è stata compressa non solo da dirigenze politiche dittatoriali non certo favorevoli agli sviluppi della modernità, ai cui occhi quest’arte parve degenerata, come il nazismo la definì, ma anche dai problemi indotti dalla miseria che percorse da protagonista il mondo per l’arco di almeno un quinquennio.

Ives che, disinteressato ai vantaggi economici che avrebbe potuto trarre dalla sua musica, operava nella più grande libertà, sorprese per la bellezza e la tenuta di pagine quali Central Park in the Dark, The Unaswered Question, la Concord Sonata, pagina che ancora oggi richiede estrema perizia chiedendo anche scelte esecutive problematiche a chi l’affronti, la Holidays Simphony, Three Places in New England, il Trio o il Quartetto n. 2, però risultava difficilmente collocabile. La sua era una voce nata d’oltretomba, che aveva cominciato a farsi sentire con la diacronicità di un mezzo secolo, e non un mezzo secolo da poco dati i cambiamenti rivelati, ma anche indotti da due guerre devastanti. Quella voce usava già in parte almeno strumenti espressivi che appartenevano a un’epoca più avanzata di quella che aveva sede nel cuore dell’artista, che si (ci) metteva di fronte alla tensione etica del puritanesimo più evoluto, di una personalità in cui il libero arbitrio è questione di responsabilità: modo d’essere affatto dissonante nei confronti del giustificazionismo che intanto veniva affermandosi quale strumento per ripulire ogni coscienza.

© Riproduzione riservata

Tags: Charles Ives
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Giampiero Cane

Giampiero Cane

Dagli anni Sessanta critico musicale per quotidiani e riviste, collabora ancora oggi con il manifesto. Ha insegnato nell’Università di Bologna, avendo la cattedra di Civiltà musicale afro americana, ma coprendo per sei anni anche l’insegnamento di Storia della musica moderna e contemporanea. È autore di alcuni libri, tra io quali si possono ricordare Tre deformazioni dolorose: Sade, Rossini, Leopardi, Canto nero (sul free jazz), MonkCage (sul Novecento musicale Usa), e Confusa-mente il Novecento.

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