A colloquio con Rinaldo Alessandrini. Conclusa la trilogia monteverdiana al Teatro alla Scala il raffinato interprete di musica antica ci racconta il suo punto di vista sulla realizzazione delle opere di Monteverdi e sul rapporto con il regista Bob Wilson. Ma anche tanto altro. La didattica? «Equivoca una certa disponibilità tecnica e la promuove a espressione». In aereo? «Ascolto Boulez»
di Simeone Pozzini
«COME SPESSO SUCCEDE IN TEATRO ci sono dei margini di impenetrabilità del lavoro scenico. Nel senso che sovente accade che un direttore d’orchestra e un regista si incontrino accomunati da un contratto, ma non necessariamente da un progetto artistico di qualche tipo. Ora, chiaramente nel caso di Bob Wilson mai mi sarei sognato di mettere dei paletti all’inizio». A pochi giorni dalla conclusione della trilogia monteverdiana al Teatro alla Scala, che lo ha visto impegnato dal 2009 con il regista statunitense nell’Orfeo nel 2009, Il ritorno di Ulisse in patria nel 2011, L’incoronazione di Poppea nel 2015, Rinaldo Alessandrini ci racconta di sé e di alcuni aspetti legati alle problematicità della resa dell’opera di Claudio Monteverdi. Portare infatti il teatro musicale della prima metà del Seicento in uno spazio di grandi dimensioni comporta uno sforzo che va affrontato con «con una grandezza di spirito e di sacrificio e con una dose ottimale di senso del compromesso». Alessandrini e Wilson. «Al di là di quella che può essere la sua cifra stilistica ho pensato che ci sarebbe comunque stato qualcosa da fare, da imparare, da lavorare. Nella fattispecie Bob Wilson è un personaggio estremamente complesso, non si fa fatica a capirlo anche considerando il suo lavoro sul palcoscenico. La persona ha un suo punto di leva».
Il madrigale risulta essere una forma quasi perfetta perché impegna l’ascoltatore per non più di quattro o cinque minuti al massimo, però effettivamente propone un’esperienza estetica, musicale, letteraria a suo modo compiuta
Qual è il suo bilancio di questa esperienza? Si è parlato di gelo e distacco da più parti per quanto riguarda la resa scenica. Questo apparente contrasto ha però sortito un maggiore peso a favore dell’espressività vocale.
«Dal mio punto di vista il lavoro di Bob Wilson in palcoscenico è molto più funzionale del lavoro di molti registi che oggi si vedono lavorare nei teatri d’opera. Io poi non voglio parlare a nome di Wilson ma vorrei dire che lui a più riprese ha tenuto a comunicare ai cantanti il suo modo di vedere le regìe d’opera: evitare in modo totale una sorta di sovrascrittura della regìa sulla musica. Per cui quello che risulta forse ai più un gesto raggelante è il suo sforzo di non voler occultare la potenza della musica con delle immagini assolutamente superflue. Quindi il tratto di Bob Wilson diventa effettivamente poco teatrale e molto decorativo. Ora, dipende da quello che il pubblico si aspetta in teatro. Non nascondo che per i cantanti, abituati a un tipo di gestualità sicuramente più espansiva soprattutto da un punto di vista fisico, non sia stato difficile, però l’unica cosa che io posso dire di tutta questa storia è che Wilson ha sempre tenuto al fatto che in un’opera musicale la musica giocasse un ruolo determinante in termini d’ascolto, quindi che la regìa non dovesse in nessun modo soverchiare. Dopodiché, ripeto, siamo alle prese con i princìpi di una persona estremamente intelligente, estremamente complessa, con la quale non è facile fare due conti. Però devo dire che alla lunga ho pensato diverse volte di preferire, almeno in princìpio, un approccio del genere piuttosto che quello di molti registi che pretendono di isolare delle verità nei libretti delle opere che il direttore dirige, con i quali spesso non si riesce a trovare neanche un punto di incontro su niente».
Quindi il lavoro tra di voi è sempre stato molto chiaro e semplice.
«Il lavoro tra me e Wilson dal punto di vista della fattività concreta è stato praticamente inesistente, perché basato sul presupposto che Bob Wilson ha sempre tenuto a comunicare a chiunque dicendo: “Io sono qui per rivestire d’immagini una musica che di per sé è già sufficiente, quindi non devo assolutamente contribuire in niente che sia originale oltre alla musica”. Quindi il suo modo di vedere e di dire che la musica parta e si sviluppi per quello che è, mettendo un contenitore nel quale questa musica oltre che ascoltabile sia anche visibile, senza però per questo interferire nella natura stessa della musica».
In una intervista per la Oxford University Press del 1997 lei sosteneva la differenza tra un approccio inglese ed uno italiano nell’espressività vocale. Ritiene che ci sia stata una evoluzione interpretativa o rimane della stessa idea?
«Non posso fare a meno di pensarlo, perché viviamo in due nazioni diverse, viviamo con dei presupposti culturali diversi, senza per questo farne una differenza qualitativa, semplicemente è un modo diverso di vedere un po’ tutta la musica. Come dire, parliamo lingue diverse. Non potrebbe che essere differente».
Le difficoltà acustiche della vocalità barocca nei teatri moderni. Come si affrontano?
«Si affrontano con una grandezza di spirito e di sacrificio e con una dose ottimale di senso del compromesso. Il fatto di allestire queste opere alla Scala ha rappresentato probabilmente lo scoglio maggiore dal punto di vista musicale. Va da sé che i cantanti, di fronte ad uno spazio vuoto così immenso siano, come dire, spinti a forzare la voce più di quello che in realtà la musica chiederebbe. Qui, il lavoro alla base, al di là della musica o meno, è stato quello di mettere in atto una simulazione vocale, sonora, che restituisse il fronte di una attitudine parlante, piuttosto che cantante, ma che potesse essere percepita da tutti. Poi esistono anche dei limiti umani e fisici, per cui io posso essere, come dire, compassionevole nei confronti di tutti quelli che hanno lamentato una scarsa sonorità dell’esecuzione in Scala, ma non è che ci fosse un’altra soluzione. Mi è capitato di leggere molte lamentale sul fatto che la buca fosse a detta di molti sguarnita. Ma la buca era tutt’altro che sguarnita. Per essere una buca di Monteverdi era una buca estremamente ricca. Diciamo che il problema è che il teatro è molto grande ma d’altro canto non c’erano soluzioni alternative. Si è fatto quello che si è potuto compatibilmente con il principio di recuperare un minimo di verità storica di quest’opera».
Perché, dal suo punto di vista, Monteverdi ci appare sempre di una attualità sconcertante?
«I libretti o la musica?»
Tutti e due.
«Ma vede, il libretto dell’Incoronazione di Poppea è effettivamente molto attuale, non fosse per altro che affronta temi che sono rimasti nella cultura e nella vita quotidiana penso un po’ di tutto il mondo, quindi lotte per il potere, corruzione e via dicendo. Questo comunque è un merito da attribuire a Busanello più che a Monteverdi. Al compositore la lungimiranza di aver, come dire, cercato, accettato, una simile opportunità. D’altra parte il libretto dell’Ulisse è estremamente differente. Il libretto di Padoano, a suo modo, ha delle grosse parti di farraginosità lette con un occhio contemporaneo, legate comunque al concetto di ridondanza che è insito nella poesia di primo Seicento. Il libretto dell’Orfeo è un libretto molto poetico, stringato, relativamente corto, e anche lì, diciamo, ci sono delle zone che lette attraverso le ragioni della creazione dell’opera sono giustificate. Oggi possono risultare lente o pesanti o comunque troppo sviluppate. Per quanto riguarda la musica, questa cosiddetta modernità… Noi forse traduciamo in modernità quello che più francamente ci sembra esotico. Percorriamo un rito che è quello di andare a teatro, di sederci per sentire un’opera lirica, e dopo aver ascoltato Verdi, Puccini, e non so chi altro ci ritroviamo ad avere a che fare con un teatro che è fondamentalmente basato sulla parola più che sulla musica. Sicuramente è un gesto che col senno del poi oggi viene considerato moderno. In realtà è basato su un presupposto culturale, artistico di tutt’altro tipo. Un giorno o l’altro bisognerà, come dire, fare luce in un modo non dico definitivo ma mettere al corrente chi va a teatro: la musica del primo Seicento è molto più vicina ad un teatro parlato che non cantato. Forse per questo oggi viene considerato un gesto artistico di rottura, ma è perché nasce da presupposti completamente diversi».
Al di là di questa trilogia il riferimento voleva comprendere la figura di Monteverdi in senso più ampio: la sua ricerca, la sua sperimentazione, se pensiamo ad alcuni madrigali, ad esempio Zefiro torna e’l bel tempo rimena…
«Guardi il madrigale ha un suo grosso vantaggio: propone una esperienza musicale e artistica legata a un testo, e questo testo è generalmente legato a pochi concetti base e la durata del madrigale fa sì che, come dire, la percezione del successo artistico possa essere immediatamente e in un certo senso facilmente fruibile. Ora, per quanto riguarda la specificità dell’atteggiamento monteverdiano rispetto al madrigale siamo di fronte ad un compositore che, pur nel rispetto di una tradizione molto lunga, che era quella Cinquecentesca, ha voluto e soprattutto ha saputo rinnovare il linguaggio del madrigale grazie alla sperimentazione o ad un lavoro estremamente profondo basato sul rapporto tra musica e testo. Parliamo di Monteverdi, ma potremmo parlare in un modo analogo, pur constatando le diversità di sintesi, di Gesualdo, di Marenzio e via dicendo. Alla fine il madrigale risulta essere una forma quasi perfetta perché impegna l’ascoltatore per non più di quattro o cinque minuti al massimo, però effettivamente propone un’esperienza estetica, musicale, letteraria a suo modo compiuta. Quando siamo fortunati e capitiamo con dei compositori che hanno avuto una loro visionarietà, rischiamo di essere di fronte a dei piccoli capolavori».
Buxtehude è un compositore che lei ha registrato nel 1995, è ancora nei suoi interessi discografici?
«In realtà è un compositore che non ho mai abbandonato e che eseguo spesso nei miei recital. Tornare a registrare Buxtheude credo sia abbastanza improbabile, anche perché all’epoca feci una cernita di quello che mi sembrava interessante da registrare compatibilmente con l’esecuzione al clavicembalo. Io specificatamente non suono l’organo e soprattutto non suono organi dell’epoca di Buxtehude. Vorrei utilizzare il tempo che mi rimane per affrontare altri compositori».
Quali compositori vorrebbe quindi affrontare come solista o con Il Concerto Italiano?
«Clavicembalisticamente parlando ci sono molte cose che vorrei approfondire. La musica per cembalo di Händel, escludendo le Suites, che più o meno si conoscono; le sonate bibliche di Kuhlau, oppure musica francese e via dicendo».
Ascolta altra musica oltre alla classica? Ha tempo?
«Guardi io generalmente ascolto pochissima musica antica, in genere. Tornando a Milano in aereo ho ascoltato Boulez quasi tutto il tempo. Quindi diciamo che da un punto di vista dell’ascolto, almeno compatibilmente con quello che faccio, sono molto atipico. È difficile che io ascolti musica antica. Mi capita a volte di ascoltare jazz, ma in modo totalmente casuale, spesso in radio, quindi non sono in grado di fare scelte. Comunque ascolto musica che in un modo o nell’altro colpisce la mia immaginazione e il mio senso estetico».
A proposito di musica contemporanea, crede che esista una eredità ed una continuità della vocalità dalla musica barocca in quella del nostro tempo, seppur ovviamente con estetiche diversissime?
«La continuità dovrebbe esistere a un livello estremamente semplice. Il Seicento italiano ha inventato l’espressione: per i cantanti, per i musicisti, e l’ha inventata a partire da un testo letterario, ha fatto sì che la musica in un modo o nell’altro avesse un contatto con il testo e ne rendesse in un modo sonoro le immagini. Questa potrebbe essere la linea di continuità. Poi succede spesso e volentieri che non tanto a carico dei compositori, i quali che per loro natura hanno sempre tenuto ad un livello ottimale di espressività, succede che a carico degli esecutori, nella fattispecie i cantanti, che si ritrovano ad essere le prime vittime più o meno inconsapevoli della loro stessa tecnica. Succede abbastanza spesso che il cantante, ancora prima di aprire bocca pensa ad un suono tecnico piuttosto che un suono espressivo. Quindi spesso la frattura è qui. E poi diventa ancora più visibile quando chi ascolta, chi va in teatro, s’occupa a priori, in modo assolutamente scollato da tutto il resto, del volume della voce del cantante, o degli acuti e via dicendo. Trovo che sia piuttosto qui lo scollamento di quanto succede piuttosto che nei compositori.
Quindi uno scollamento nella socialità.
«Sì, nella socialità e nella percezione e sicuramente per quanto riguarda un modo di dire, di cantare, nella didattica, che spesso equivoca una certa disponibilità tecnica e la promuove a espressione. Quello che è disponibilità tecnica è qualcosa che dovrebbe poi essere usato per esprimere a priori e per stare su un palcoscenico e per dare vita a personaggi a sentimenti, a situazioni, utilizzando una capacità di simulazione. Mentre spesso e volentieri ci si scontra con il fatto che è l’acuto quello che garantisce la qualità di una esecuzione, è il vocìo più o meno alto quello che, al di là del fatto che ci sia una pertinenza stilistica, una capacità espressiva o meno. Spesso la gente si accontenta veramente di poco».