di Luca Chierici
Per i suoi recital di fine anno, in questo caso per la milanese Società dei Concerti, Beatrice Rana ha preparato un programma singolare che, se vedeva nella mitica “106” di Beethoven il piatto forte, si è rivelato globalmente affascinante e ha messo in luce una ulteriore maturazione artistica da parte di una pianista da tempo acclamata in tutto il mondo.
Lanciata oramai da qualche anno anche grazie alle sue performance nel contesto dei Concerti per pianoforte e orchestra, che le hanno assicurato un plauso unanime, e alle sue apparizioni accanto a validi strumentisti, in quello della musica da camera, la Rana ha in questo caso affrontato il ben più impegnativo recital solistico precisando più che in passato le proprie volontà di scelta di repertorio e soprattutto di coraggiosa presa di posizione a volte controcorrente. Non è facile oggi per un interprete attingere a un repertorio ben conosciuto rispettando il lascito dei grandi pianisti del passato più o meno recente e allo stesso tempo ribadendo con fermezza le proprie scelte, i propri convincimenti. E questo indirizzo ha rappresentato la caratteristica più interessante del recital dell’altra sera.
Che Beatrice Rana avesse capacità da vendere nell’affrontare tecnicamente il programma costituito appunto dalla “106” di Beethoven, dalla Sonata op. 35 di Chopin e da una scelta di Preludi e Studi di Skriabin (difficilissimo lo studio op. 42 n. 5, cavallo di battaglia di Horowitz) era dato quasi per scontato. Ma non così scontata era la proposta di legare senza soluzione di continuità sei pezzi di Skrjabin, scelti accuratamente in modo da rivelare una certa loro consequenzialità , di immergere la “Marcia Funebre” chopiniana in un alone di suono quasi pre-impressionistico, centellinando il cantabile centrale con indubbia partecipazione e soprattutto di sottolineare nel famoso finale un fraseggio che si opponeva ai canoni di eguaglianza quasi sempre ostentati dai grandi del passato, quasi una versione alternativa al mitico esempio di Michelangeli. E anche nel primo movimento la Rana ha seguito con intelligenza la relativamente recente posizione di Pollini, che fa iniziare il ritornello dalle battute iniziali, da sempre considerate come solamente preparatorie alla comparsa del tema principale.
Nella sonata beethoveniana per eccellenza si è notata nel primo movimento l’attenzione a certi particolari strutturali, solitamente omessa da quasi tutti gli interpreti. Nell’Adagio era palpabile una particolare partecipazione verso un cantabile dai contorni narrativi, e nel proibitivo finale la quasi impossibile ricerca di una sintesi tra la chiarezza polifonica e la velocità imposta dal metronomo originale. Non ricordo una simile concentrazione esecutiva dai tempi del giovane Pollini, solista che rimane ancora oggi uno dei più luminosi esempi di totale immersione in un testo di così straordinaria densità intellettuale.
Nel corso di tutte queste letture si è ammirata, in altre parole, la capacità di sintesi tra gli aspetti armonici, narrativi e puramente tecnici del discorso. Un traguardo che sicuramente avrà una ulteriore evoluzione nel prossimo futuro, se Beatrice Rana saprà oculatamente indirizzare le proprie scelte di repertorio tenendo conto sia delle proprie preferenze personali, sia dei parametri di progettualità che debbono essere sempre alla base di una scelta culturale.
L’esecuzione della “106” avrebbe potuto concludere senz’altro un programma così impegnativo, lontano dalle pur ammalianti melodie di un Saint-Saëns rivisto languidamente da Godowsky e da un brillante Debussy concessi come bis.