di Luca Chierici
Il titolo di Last Romantic che era stato affibbiato allo Horowitz degli ultimi anni di carriera va trasferito direttamente a Mikhail Pletnëv, non ci sono dubbi. Egli è rimasto l’unico pianista in grado di piegare al proprio gusto, al proprio fraseggio, alle proprie dita qualsivoglia spartito collocato storicamente tra Ottocento e Novecento.
E il confronto tra Pletnëv e altri colleghi, soprattutto più giovani, è da un certo punto di vista impietoso, perché nessuno oggi è come lui in grado di rileggere il repertorio partendo dall’idea che l’interprete può tutto, anche stravolgere ciò che ascoltiamo quotidianamente. Con un suono bellissimo, coadiuvato dalla presenza di uno Shigeru Kawai accordato secondo i suoi dettami e salutato dallo stesso pianista al termine del concerto con una piccola pacca sul mobile ligneo, così come si fa nei confronti di un animale domestico fedele al quale si è da lungo tempo affezionati.
Il programma scelto per il suo recital annuale – qui eravamo a Milano, alle Serate Musicali – era particolarmente complesso e frammentato: pagine brahmsiane molto note intercalate da pezzi da salotto di Dvořák sconosciuti ai più, le due parti della serata eseguite senza soluzione di continuità. Il Brahms di Pletnev è giustamente affrontato sull’onda del ricordo e in particolare sono piaciuti immensamente i tre Klavierstücke dell’op.117. Il segno brahmsiano non è stato oggetto di personalizzazione, ma non così è avvenuto per le pagine di Dvořák, dove il pianista si è concesso molte licenze e ha tagliato diversi numeri appartenenti ai Quadri poetici op. 85. Licenze davvero poetiche perché quei testi vanno interpretati secondo l’estro del momento, senza una pedante precisione riguardante il segno scritto. E bene ha fatto Pletnëv a trasportarci in un milieu mitteleuropeo di fine ‘800, fatto di piccole scene di vita borghese che molto richiedono all’esecutore in termini di gusto e di evocazione di tempi lontani. Non vi era una chiave segreta per interpretare le scelte e gli accostamenti voluti dal pianista, e una volta tanto si sono ascoltate successioni di pagine che si presentavano senza particolari connessioni interne se non quelle di un gusto personale sopraffino. Naturalmente la qualità delle composizioni brahmsiane si percepiva eccome, ma del mondo di Dvořák si sono colti frammenti di reminiscenze antiche che personalmente mi hanno richiamato le hall dei Grand Hotel dei primi del Novecento, come quella dove si svolgevano le famose scene di Morte a Venezia. Pagine senza un particolare programma che si prestavano a un salotto di eleganza e raffinatezza estreme sono state proposte da Pletnëv con le armi di un pianismo immacolato dai timbri seducenti. E il pubblico si è dovuto arrendere, soggiogato, ai desideri del pianista, anche quando ha concesso come bis squisiti il più famoso dei Notturni chopiniani e il più ammaliante degli Studi di Skriabin.
Pianisti di questo tipo sono letteralmente scomparsi dalla faccia della terra e le generazioni più giovani possono a ragione ascoltare e osservare Pletnëv come se fosse l’unico esemplare vivente di una stirpe che si è definitivamente estinta. Perché nessun giovane, oggi, potrebbe mai tentare di evocare questo particolare approccio alla tastiera: ne uscirebbe un ridicolo plagio che non interessa a nessuno. Complimenti quindi a lui per l’artista che è, e doppi complimenti per avere puntato l’attenzione su un autore così poco conosciuto, con una disposizione alla lettura (tutto a memoria, si intende) del repertorio cosiddetto minore che quasi nessun artista di oggi ha il coraggio (e le capacità) di affrontare.