di Francesco Lora
Durante l’inverno dei teatri italiani, per l’esecuzione delle opere di Giuseppe Verdi, c’è uno schieramento di squadre opposte. Nei circuiti lirici della Lombardia e delle Marche, Enrico Lombardi, direttore nuovo per le scene liriche, ha presentato una Traviata integrale come non se ne aveva da tempo una, oltre che con le sempre introvabili appoggiature, qualche variazione in stile, tutte le cadenze originali e un asciutto, affilato passo teatrale.
Al Maggio Musicale Fiorentino, Daniele Gatti ha a sua volta concertato Don Carlo nobilitandone esteticamente ogni più minuto segno, a costo di sconfinare in una sensazionale vanità che pone il Verdi strumentatore – dovrebbe essere ovvio, ma non lo è affatto – sul medesimo piano degli assi francesi e tedeschi. Dirimpetto, tuttavia, c’è il caso del Teatro alla Scala, dove, sotto la direzione di Fabio Luisi, si stanno dando non Les vêpres siciliennes, bensì I vespri siciliani, in obsoleta traduzione italiana e con mezz’ora abbondante di tagli in almeno tre punti del grand opéra: tanto peggio, poiché l’esecuzione è altrimenti di qualità. Mentre a Milano termina solo ora quasi un mese di recite, in meno di due settimane si sono invece svolte, con una sacrosanta caccia al biglietto, le otto di Aida al Teatro dell’Opera di Roma (31 gennaio – 12 febbraio): una produzione che rinfoltisce la squadra virtuosa e addirittura segna la storia interpretativa dell’opera.
È anzitutto l’Aida di Michele Mariotti: ristudiata fin dalle fondamenta allo scopo di scrostare via le banalizzazioni della tradizione, rozze, chiassose e pigre, su un testo al contrario dovizioso di ingiunzioni via via intime, precise, sommesse, sferzanti, sopraffine. Ciò non s’ascolta per la prima volta: Herbert von Karajan, Claudio Abbado, Riccardo Muti, Riccardo Chailly, Daniele Gatti e persino Nikolaus Harnoncourt non hanno infatti intrapreso, ciascuno nel proprio tempo, un percorso dichiaratamente differente. La differenza è che Mariotti vanta più di tutti la dedizione prioritaria verso l’opera nonché l’amorevole rapporto con i cantanti: la voce, il canto, la parola sono collocati in un primo piano memore della lezione di Arturo Toscanini, anzi di essa anche maggiore, comunque declinata in chiave ben più moderna. Quanto al discorso strumentale, esso diviene autentica evocazione d’ambiente, vibrante struttura narrativa, scrigno di meraviglie tecniche dovute all’intuitivo genio della concertazione o alla meticolosa restituzione della partitura: si allude al nostalgico e macerante effetto di dissolvenza timbrica e fraseologica, ottenuta tramite microscopici sfasamenti del tessuto degli archi, alla maniera dell’ultimo Karajan, o all’esotico denudarsi delle ambiguità tonali, alla maniera di Claude Debussy, come avviene nell’Introduzione all’atto III, o ancora in coda alla Scena del Giudizio, con quei cavalloni orchestrali non solo colossalmente terribili da contemplarsi, ma anche pronti a tradursi in psicologici, anzi materici, fisici colpi allo stomaco. Tutta la platea sente dentro di sé, così, in questa lettura, i milieux e gli affetti di Aida: sempre in vista del teatrale, sempre attraverso il musicale.
Spiace, allora, che le due protagoniste femminili figurino affidate a due cantanti ricche per natura di volume e di smalto, ma con un gusto incline alle esibite e volgari platealità del registro di petto, con un registro acuto posto sotto ipoteca dagli eccessi di quest’ultimo, e con insomma una scarsa predisposizione – quale che sia poi la buona volontà profusa – a inserirsi nella sfumata concezione di Mariotti. È il caso del soprano Krassimira Stoyanova, come Aida, che il celebre Do sopracuto di «O cieli azzurri… o dolci aure native» lo tuona dopo un comodo respiro anziché volarvi legando e in pianissimo; ed è il caso del mezzosoprano Ekaterina Semenchuk, come Amneris, che pure si sforza di limare questa sua parte feticcia e che comunque si emenda della propria recente, sbiadita Principessa Eboli a Firenze. A togliere da un analogo rischio la terza parte di spicco, Radamès, è stato l’inatteso subentro, all’ultimo momento, di Gregory Kunde, tenore che a sessantanove anni quasi compiuti vanta tanta importanza quanta flessibilità di mezzi, l’immediata, epidermica intesa stilistica con un direttore che al cantante richiede l’inconsueto, infine e soprattutto l’idiomatica varietà dell’accento drammatico, carico di aristocratica comunicativa in un artista di madrelingua nemmeno italiana. Una parallela, ideale adesione si ha nell’Amonasro di Vladimir Stoyanov, baritono grand seigneur nella nobile duttilità dell’emissione e nella sobria incisività del porgere. Puntuali Riccardo Zanellato, come Ramfis, Giorgi Manoshvili, come Re d’Egitto, e Veronica Marini, come Sacerdotessa; di lusso il Messaggero di Carlo Bosi: squillante, scolpito, avvincente.
Quanto all’allestimento scenico, nuovo, esso porta le firme alla moda di Davide Livermore, per la regìa, di Giò Forma, per le scene, di Gianluca Falaschi, per i costumi, di Antonio Castro, per le luci, e di D-Wok per i video. Anzitutto questi ultimi, insieme con l’alta classe dei tagli di Falaschi, danno cifra allo spettacolo, cioè attraverso il non teatralmente esaustivo colpo d’occhio sul palcoscenico, ove sembrano ecletticamente riproporsi, senza riconoscibile novità né nuova sintesi, precedenti soluzioni visive nella poetica di Livermore. Ma la zampata registica è assestata nel quadro finale. Avviene, cioè, che Radamès, nella tomba ove è murato vivo, non ritrovi affatto l’amata Aida in carne e ossa, lì scesa di soppiatto per morire insieme, bensì l’ombra di lei, una benefica illusione, il fantasma pronto a scortarlo nell’aldilà, mentre egli duetta nella propria mente, solo, al proscenio, delirando mentre l’ossigeno via via manca. Una libera uscita dal testo, questa, forse solo in apparenza: funziona con Verdi, con Mariotti, con Aida, ripulita da ciò che non è e restituita alle tre solitudini dei suoi tre – non uno di meno – disperati protagonisti.