di Luca Chierici
Che la componente più esteriore dell’arte di Volodos, ossia quella legata alla bellezza del suono, possa a volte sovrastare quelle che sono le scelte di repertorio del pianista è un dato di fatto cui siamo abituati da tempo e che rischia a volte di porre in secondo piano ben altre caratteristiche che sono alla base dell’arte sua.
In tal senso l’importanza conferita da Volodos alla prima parte del suo nuovo programma concertistico, quella dedicata a musiche di Mompou, è sembrata più dedicata a certi preziosismi timbrici e di fraseggio che costituiscono parte integrante delle composizioni di un autore certamente scomodo se considerato secondo i parametri che regolano l’importanza storica di certo repertorio. Nel 1918 (anno di composizione delle Scènes d’enfant) la musica d’avanguardia era su tutt’altre posizioni; non parliamo nemmeno di ciò che accadeva tra il 1959 e il 1967, periodo di composizione dei quaderni di Musica callada. Ma è vero che certa scrittura di Mompou ha affascinato non solamente campioni del recupero della musica iberica come la Larrocha ma anche grandi figure come quelle di Rubinstein o Michelangeli.
Se c’è un merito da parte di Volodos, è quello di imporre al pubblico i propri programmi al di là dei gusti comuni. Come diceva il buon Arrau, se vi va bene è così … se no va bene lo stesso. Non è stato facile digerire una buona mezz’ora di Mompou se non ascoltando le meraviglie timbriche del nostro pianista che ha dato il via a tutte le raffinatezze che il suo modo di suonare mette in campo, e non solo per stupire l’ascoltatore. E rinunciamo in partenza a capire e motivare i criteri che sono stati alla base della numerosa scelta di numeri operata da Volodos in base alla forma integrale delle due opere. Il discorso relativo a Skriabin è parzialmente diverso, perché se è vero che anche in questo caso il pianista ha sfoderato tutte le proprie risorse coloristiche, l’importanza di questi testi nella storia dell’interpretazione (se non in quella della Musica in assoluto) è purtuttavia dato incontrovertibile e come tale soggetto a confronti. Richter e soprattutto Horowitz hanno dimostrato negli anni quanto profonda da scandagliare sia la complessità di questo repertorio, che non è ovviamente attaccabile con le sole armi del “bel suono”. Volodos ne è perfettamente a conoscenza e ha dimostrato soprattutto nella decima sonata e in Vers la flamme che cosa si nasconda sotto le ondate di una sonorità a volte massiccia, attingendo a risorse inventive personali che sono andate al di là persino degli esempi illustrati dai famosissimi colleghi di un tempo. Successo vivissimo da parte di un pubblico come sempre soggiogato dalla personalità dell’artista.