Nell’interpretazione di Jeffrey Swann il ciclo integrale delle variazioni del compositore italiano, tra Brahms, Webern, Bartók


di Giampiero Cane


NEL PROGRAMMA DE “IL NUOVO L’ANTICO” che è la sezione concertistica più attenta alla musica recente del calendario del Bologna Festival, i nomi che più facilmente s’incontrano nel calendario d’ottobre sono quelli di Bartók, Webern e Donatoni. I primi due sono d’inizio Novecento, il terzo è appartiene alle esperienze post-Darmstadt; è un musicista che ha cominciato a pubblicare qualcosa negli anni Cinquanta per sviluppare appieno la propria potenzialità poi, direi soprattutto negli anni Ottanta.


«I dialoghi con Franco erano ancora più frammentari di queste sue Variazioni: ci si reincontrava a distanza di mesi e si riprendeva là dove il confliggere o l’abbracciarsi delle idee s’era interrotto»


jeffreyswann

L’ultimo concertista che ha avuto una serata in quella sezione è stato Jeffrey Swann, un pianista che ha sulle spalle più di mezzo secolo di diteggiature, dotato di una capacità di porgere che riesce a volte ad essere veramente affabile, uno strumentista affatto privo di divismo, ma sciolto ed elegante come non molti. Sembra guardare alla musica che esegue con un accenno di sorriso sulle labbra e certamente la porge al pubblico che lo segue senz’altezzosità alcuna e familiarmente, anche dove sia tecnicamente assai difficile.

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Le Variazioni per pianoforte op. 27 di Webern sono tali che nessuno che si dica amante della musica dovrebbe poterle ignorare, ma naturalmente in Italia almeno non è così. Qualcuno che se ne intendeva ha detto che esse erano, e naturalmente sono come “un romanzo in un sospiro”, atemporali, direi, com’è estranea allo spazio L’isola dei morti di Böcklin. Pare essere una delle poche musiche per pianoforte nelle quali la meccanica dello strumento, se s’insinua, diventa sempre proprio fastidiosa.

È questa la composizione che Swann ha eseguito in apertura della seconda parte del concerto, dopo che aveva già proposto all’ascolto i Tre intermezzi op. 117 di Brahms e il barrage turbinante dei 7 cicli della Françoise Variationen di Donatoni.

Nel nostro mondo musicale, negli anni attorno al terzo quarto del secolo scorso erano di moda comportamenti piuttosto buffi: c’erano filosofi che dicevano “cazzate pazzesche” sulla musica e musicisti che si sentivano in obbligo di fronte al tedesco e filosofeggiavano nella propria lingua, ma con parodie più o meno ridicole del pensiero negativo. Il titolo del pezzo di Donatoni non era una presa in giro, ma un povero rispecchiamento della  misera musicologia antistravinsky di Adorno.

Cercare di capire perché il professore di Francoforte avesse pensato di fare un buon servizio a Schönberg scrivendo contumelie contro un musicista russo americanizzato è un’impresa (se non si ipotizza che ci sia di mezzo la deformazione delle beghe familiari nel vicino oriente). Quest’ultima è cosa su cui speculano ancora gli spiriti meno intelligenti che vivono su questa comune terra.

Quel che è divertente sta altrove: in come i brevissimi paragrafi dei sette libri delle “Variazioni francesi” si mettono di fronte al pianismo di Cecil Taylor, le cui prime note registrazioni erano nelle discoteche da un quindicennio circa. Frammentario, Donatoni lo è, sapendolo, ma Taylor stava avviandosi a tenere bufere della più turbinosa musicalità quando lui (Franco) apriva brevi spiragli sugli intrecci e i flussi che parevano indomabili e che l’altro governava già da anni, piegando le bizzarrie delle furie ch’egli stesso metteva in campo.

Chiedo scusa a chi legge, ma qui devo scrivere in prima persona perché negli anni Settanta, come Donatoni, insegnavo a Bologna. In dipartimento non ci si frequentava affatto, ma ci s’incontrava, come con Clementi (che però più facilmente vedevo a Roma (dove occasionalmente mi capitò d’incontrare anche Donatoni, che però viveva a Milano). Di fatto l’entourage era spesso comune ed io ero un critico presente in alcune testate di un certo rilievo. Donatoni conosceva, credo, qualcosa della musica di Taylor, ma quanto e cosa non so. I dialoghi con Franco erano ancora più frammentari di queste sue Variazioni: ci si reincontrava a distanza di mesi e si riprendeva là dove il confliggere o l’abbracciarsi delle idee s’era interrotto. Mi chiedo se era proprio così o se si tratta solo di una sensazione; se era questo, so che valeva per tutti due.

Erano anni strani: l’ho già detto. Ma Franco passeggiava durante l’inverno con sandali più o meno estivi. Dicendo che indossava i calzetti, non credo di sbagliare. Nella sezione teatrale del nostro medesimo dipartimento c’era del resto un altro insegnante, ma di teatro, che in imitazione  non so bene se di Artaud, ma più probabilmente di Grotowski, anche lui se ne stava coi piedi nei sandali, ma, ne son quasi sicuro, senza indossare calze. Mi pare si chiamasse Franco Ruffini.

Tornando a un confronto con Taylor, legittimato solo dal capriccio, quest’ultimo era, ed è, anche un performer. Donatoni no. Quegli ebbe un’occasione a Bologna per una residenza di performance, per cui una sera dopo l’altra era in uno dei quartieri dove suonava per 90 minuti e più davanti a un pubblico che raramente raggiungeva le 2 dozzine di persone. Ma quei pochi che c’erano, in generale restavano in sala malgrado la sua musica fosse allora per i più solo un punto di domanda.

Ascoltato sera dopo sera – di pomeriggio compiva attentati alla meccanica dei pianoforti del Comunale – fece capire come fosse corrispondente alla realtà il suo dire che ogni performance sarebbe stata per lui ripetibile.

Donatoni, moltiplica queste sue variazioni frammentando la musica, non diremmo l’idea. Dà un altro numero dopo un breve tempo. Forse, leggendole si potrebbe continuare senza interruzioni, perché l’andare a capo è suggerimento di vecchie partiture. Per saperlo bisognerebbe farlo, ma gli interpreti accademici non si danno di tali permessi. Di conseguenza, l’alba di Donatoni in questo caso non si vede perché la sua musica si apre nel solleone della genialità di un musicista che se ne sta in un altro territorio.Nelle polemiche dell’epoca e nella fatica della dignità da rivendicare, Cecil Taylor menzionava Bartók come un musicista ch’egli conosceva più o meno a menadito.

La distanza culturale tra i due mondi è rivelata anche da questo: tra il conoscere Bartók e il conoscere un Testo o un altro, nel conoscere non c’è nessuna differenza. Quando Swann chiude il suo programma con le Quattro Nenie del 1910 e, a seguire, All’aria aperta del 1926 non propone al pubblico un’assenza dall’agone dell’epoca, ben presente a Bartók in altri testi (o forse anche in questi leggendoli altrimenti), ma l’esotismo di un naturalismo che si cela. La ragione profonda si svela nei bis: Debussy e Chopin e di quest’ultimo Swann più o meno si scusa ché da pianista non può farne a meno.

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Giampiero Cane

Giampiero Cane

Dagli anni Sessanta critico musicale per quotidiani e riviste, collabora ancora oggi con il manifesto. Ha insegnato nell’Università di Bologna, avendo la cattedra di Civiltà musicale afro americana, ma coprendo per sei anni anche l’insegnamento di Storia della musica moderna e contemporanea. È autore di alcuni libri, tra io quali si possono ricordare Tre deformazioni dolorose: Sade, Rossini, Leopardi, Canto nero (sul free jazz), MonkCage (sul Novecento musicale Usa), e Confusa-mente il Novecento.

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