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L’era del postmoderno (ormai post-post) ci ha sommersi di una miriade di informazioni, al punto che la storia più recente è divenuta un labirinto in cui sembra impossibile orientarsi. Riscoprire un musicista pressoché dimenticato, quindi, non può voler dire semplicemente rimetterne in commercio i dischi o farne ascoltare le incisioni, ma sondare le ragioni più profonde del suo “fare arte” e risalire attraverso esse alla sua estetica e alla sua poetica.
Nelle librerie ha fatto timidamente capolino nel 2011 un libro fuori dal comune: Nella casa del pianista (ed.Iperborea), scritto dall’olandese Jan Brokken e dedicato alla figura del pianista russo Youri Egorov; un libro che rifiuta radicalmente l’impostazione agiografica che musicologi e musicofili adottano spesso per celebrare i propri idoli, restituendo invece la verità dell’uomo e dell’artista Egorov nella sua irriducibile complessità. Non casualmente Brokken, solitamente scrittore di viaggio, è stato paragonato dalla critica a Graham Greene e a Bruce Chatwin: lo stile di scrittura è quasi documentaristico, senza fronzoli, tutto teso a cogliere l’essenza di una vita consumatasi in poche fiammate e di un’arte che, invece, durerà presumibilmente fino alla fine dei tempi.
La storia di Egorov, di cui Brokken fu molto amico nonché vicino di casa ad Amsterdam, è presto detta: prodigio pianistico nella classe del grande didatta Yakov Zak al Conservatorio di Mosca, gay perseguitato dal KGB e assetato di libertà, profugo a 22 anni nei pressi di Roma, Egorov si stabilì infine nella Amsterdam libertaria e bohémienne degli anni ’70/80, dove troverà il successo, le amicizie, la “bella vita decadente”, ma anche l’aids, che lo condurrà all’età di 33 anni a darsi l’eutanasia. Trentatré anni come un’altra meteora del pianismo, Dino Ciani, con il quale condivideva una sensibilità esacerbata, ma soprattutto come Dinu Lipatti, paragonato spesso a lui per il pianismo di essenziale intensità, pieno di sentimento ma mai sentimentalistico, adamantino ma mai meccanico.
Brokken non risparmia certo i dettagli della lunga cupio dissolvi che si impossessò di Egorov: l’ansia del voler consumare tutto ciò che gli era stato fermamente proibito nella Russia sovietica, dalle droghe al sesso, la lacerante nostalgia della patria amatissima, il senso di colpa verso la famiglia abbandonata, le nevrosi irrimediabili di un uomo scisso fra la più mistica spiritualità e una divorante carnalità -forse i due lati di una stessa medaglia.
La sincerità e la forza del racconto di Brokken raddoppiano il valore delle sue considerazioni sullo Egorov musicista: le emozioni provate da chi lo ascoltò in privato, in concerto e in registrazione (nei leggendari studi di Abbey Road della EMI) affiorano vivide e intatte, come se un trentennio non fosse mai passato, e ci fanno intuire l’assoluto magnetismo di un pianista che non è esagerato porre nell’empireo dei più grandi del XX secolo: per il virtuosismo trascendentale, certo; ma ancor più per la purezza dell’ispirazione, per la profondità di riflessione e la capacità di analisi dissimulata dalla naturalezza, per il potere innato di rendere percepibili i sentimenti più intimi sottesi a ogni autore e a ogni partitura affrontata.
La EMI inglese ha ristampato recentemente un cofanetto di 7 cd (Youri Egorov. The master pianist) in cui la statura di Egorov si impone come quella di un titano: dal Bach nitido e meditativo , del tutto privo di pose e schematismi, al Mozart calibratissimo ma già estremamente “operistico” in anni di severo strutturalismo, fino a un Debussy cesellato in ogni dettaglio e ricercato come non mai nelle sonorità e nelle dinamiche. Ciò che colpisce e quasi annichilisce, però, è il suo Schumann: Carnaval, Kreisleriana e le Novellette sono intrisi dell’afflato febbrile della giovinezza e nel contempo di una lucidità intellettuale sconvolgente, quella di un uomo per il quale nessun ostacolo sembrava insormontabile -eccetto i propri demoni interiori. Amava il rischio e le sfide, Egorov, ma in musica sapeva essere estremamente accorto nelle scelte di repertorio: la sua apparente tracotanza nascondeva l’umiltà di un interprete al servizio della bellezza musicale, mai incline all’esibizionismo, ma invece portato a sperimentare su di sé -fino all’immolazione- gli abissi della Cathédrale engloutie o gli smarrimenti metafisici dell’ottava Novelletta.
Per Youri Egorov, in vita, ci sono state solo due stagioni: il lungo inverno degli anni sovietici, protrattosi ancora quando ad Amsterdam teneva sempre la destra del marciapiede per timore di essere tirato dentro a un auto dei servizi segreti sovietici; e l’estate sfolgorante della giovinezza ritrovata, un’estate terribilmente e forse necessariamente breve, consumata con voracità e incoscienza, sotto gli effetti dell’LSD e dell’oasi della libertà sessuale. Sta a noi, oggi, regalare a Youri Egorov quella primavera che non ha potuto conoscere: la primavera tardiva di un artista scomodo per la sua scandalosa fine, dimenticato spesso anche da chi lo aveva esaltato in vita. Una primavera che oggi è nei ricordi commossi dei pochi amici veri, come Brokken, ma soprattutto nel lascito discografico di un pianista la cui estetica fu talmente pura e inimitabile da porlo, piaccia o non piaccia, fra i massimi interpreti di ogni tempo.
Luca Ciammarughi